Da pedina di scambio a re del Massimino: il derby che Andrea non dimenticherà

Claudio Spagnolo

E li chiamano derby, questi derby senza te… Me lo dicevo domenica pomeriggio, mentre il Catania al Massimino affondava i colpi, ma neanche troppo, nell’impresentabile difesa del Messina. E pensavo con nostalgia alla signorina in rosa che per tanti anni ha deliziato i nostri occhi nelle giornate dei derby, quelli veri. E ci ha controvoglia regalato i momenti più belli della nostra vita di tifosi: quelli che ci permettono ancora – quando incrociamo lo sguardo di un cugino di quella parte di Sicilia in cui l’arancino è inopinatamente diventato femmina – di sorridergli noi beffardamente, a dispetto del fango in cui oggi sguazziamo.

E li chiamano derby, mi ripetevo scettico. Riflettendo sull’inflazione che porta ad applicare la parola alle gare, per parte mia assai poco sentite, contro Akragas e Siracusa, e chiedendomi se almeno la sfida con i cugini dello Stretto meritasse di esser considerata un derby, sia pure minore. E intanto non mi accorgevo che proprio in quel momento, per qualcuno, quello stava diventando il derby. Non perché l’unico, ché anzi speriamo sia solo il primo di una lunga serie. Ma appunto perché il primo, il meno atteso e perciò il più difficile da dimenticare.

Questo qualcuno ha appena vent’anni, è catanese, gioca a pallone e veste la maglia della sua città quasi per un caso. Quest’estate il suo destino sembrava quello di molti giovani nati qui: semplice pedina di scambio per veri o presunti colpi di calciomercato. Sfumati questi ultimi, invece, è rimasto. E si è subito diretto verso il seggiolino della panchina su cui avrebbe dovuto accomodarsi. Senonché, un bel giorno, proprio in uno di quei derby-non-derby di cui quest’anno il calendario è ricco (il Catania quella sera affrontava l’Akragas) gli è capitato di fare il suo pezzo di partita, di essere il migliore in campo e di sentire lo stadio venir giù dai fischi – per l’allenatore – quando l’allenatore lo ha tirato fuori.

Ieri, no. Ieri, quando l’allenatore lo ha fatto uscire, lo stadio è venuto giù di nuovo, però dagli applausi. Perché questo ragazzo, Andrea Di Grazia, era riuscito a fare quello che da settimane non aveva mai fatto nessuno degli attaccanti del Catania, ovverossia segnare. E a farlo per tre volte di fila nella stessa partita, trasformandosi, in un pomeriggio, da figliol prodigo in re dei cannonieri in patria. Ma soprattutto regalando a questa mesta stagione di serie C – in cui continuiamo a scontare, a suon di penalizzazioni sempre più difficili da cancellare, la pesante eredità che la proprietà ci ha lasciato senza neanche andarsene – la bellezza di una storia da poter raccontare.

Lo si è capito quando Andrea, uscendo dal campo, è andato ad abbracciare l’allenatore. E non è stato un formale gesto di cortesia, ma un abbraccio vero, carico d’affetto. Lo si è capito ancor meglio dopo, quando il ragazzo la sua storia l’ha raccontata. Una storia fatta di un papà scomparso troppo presto, di una mamma che si è sacrificata per portare in giro il figlio da un campetto all’altro, assumendosi lei quel ruolo di precoce procuratore che, in genere, viene svolto dal marito. Allora si è capito cosa c’era dietro l’abbraccio con Rigoli. Che ha già avuto con sé Andrea ad Agrigento, e lo vede ora crescere a Catania. E quando poi il ragazzo ha parlato di Rigoli come di un padre calcistico, si è intravista per un attimo – dietro la liturgia di parole a prima vista uguali a quelle pronunciate ogni domenica, in ogni conferenza stampa – la storia vera, umana, che c’è dietro.

Lo chiamano derby e forse, stavolta, hanno ragione loro. Perché questa partita contro il Messina – una delle più brutte squadre di un bruttissimo campionato di Serie C – ha saputo sospendere per un attimo la prosa di tutti i giorni regalandoci un momento di emozione vera, umana. E questo, solo i derby lo sanno fare.