Il flop Ventura, la speranza Lucarelli: le cose semplici del mestiere di allenare

Foto: uomouranio1 (flickr.com)
Claudio Spagnolo

Se c’è un mestiere che non capirò mai, è quello dell’allenatore. Sembra facile. Tanto facile che in Italia è praticato, sia pur abusivamente, da una settantina di milioni di persone: tutte convinte che  mettere una squadra in campo, cambiare i giocatori che non funzionano, fare ben un cazziatone nello spogliatoio se i tuoi ragazzi stanno giocando da rammolliti, siano in fondo cose alla portata di chiunque. Senonché.

Senonché gli allenatori fanno a volte tutto quanto è in loro potere per rendere misteriose anche le cose più semplici. Avventurandosi in scelte che, tanto più sono impensate, tanto più vorrebbero apparire geniali. Tipo non mettere in campo Rivera in una finale mondiale contro il Brasile. Oppure – se è lecito confrontare le cose minuscole con le grandi – tenersi in panchina il giocatore di maggior talento del campionato per quasi tutti i centoottanta minuti in cui dovresti fare un paio di gol alla Svezia. Cose così, che noi mortali non ci sappiamo spiegare.

Non ho mai capito se, quando un allenatore se ne vien fuori con certe pensate esoteriche, lo fa perché il calcio è davvero un’arte molto più difficile di quanto appaia a noi profani: un’arte in cui una scelta illogica – che, se la facessi io, sarebbe impietosamente bollata come una minchiata – andrebbe invece intesa come la manifestazione di un genio inarrivabile. O se invece le minchiate, anche se commesse da persone con in tasca un patentino e un contratto da un milione e trecentomila euro all’anno, restino sempre minchiate, chiunque sia a farle.

Mi chiedo anzi a volte se ad alcuni allenatori non capiti di ragionare come ragioniamo noi quando andiamo a giocarci la schedina che ci piacerebbe potesse cambiarci la vita. Se non ci siano tecnici che fanno le formazioni con lo stesso criterio con cui io – affidando il mio incerto futuro economico a una botta di fortuna con la C maiuscola – punterei forte sulla vittoria del Benevento in casa della Juve, e non già sul suo banale ma prevedibile contrario.

Ma non val la pena di aggiungere munizioni al tiro al piattello che si è già scatenato intorno al povero Giampiero Ventura. La cui colpa principale, non dirò l’unica, mi par quella di aver prestato la sua simpatica faccia da buon mister di provincia al terzo fallimento consecutivo – un fallimento niente affatto imprevedibile – di tutto il sistema del calcio italiano. Di fronte alla Nazionale vista in questi mesi, una Nazionale che ha fatto disamorare una gran parte dei suoi potenziali tifosi, ci si rallegra piuttosto se si possiede ancora, dentro questo calcio sbrindellato e nient’affatto pulito, una squadra per cui tifare. Perfino se caduta in disgrazia e macchiata nell’onore come è accaduto, negli anni recenti, al nostro Catania.

Del quale Catania, peraltro, mi dà qualche speranza il fatto che l’allenatore sia Lucarelli. Che è un tecnico giovane, che immagino abbia ancora da imparare in fatto di strategie o di tattica. Ma che intanto sembra avere almeno un po’ cambiato la testa dei giocatori. Per esempio trasformando in un evento plausibile la vittoria in trasferta, innominabile tabù dei nostri ultimi e penultimi anni. O riuscendo a svegliare i suoi ragazzi, negli spogliatoi, come è successo a Pagani, con uno di quei cazziatoni ai quali a tutti piacerebbe assistere, a condizione di esserne solo spettatori e non destinatari.

Magari sono solo cose semplici quelle che Lucarelli, a differenza dei suoi ultimi predecessori, sta mostrando di saper fare. Cose alle quali ogni tifoso crederebbe di potere arrivare, più che con la sua sapienza tattica, con il semplice slancio del suo cuore rossazzurro. Magari dovrà dimostrare anche altro, il nostro tecnico, per farci credere fino in fondo che questo sia l’anno buono. Può darsi. Ma intanto il carattere, la forza di reagire, un certo spirito collettivo, sono cose che in campo abbiamo visto. E, di sicuro, non si tratta di minchiate.