Il Catania e la sindrome di Zelig: l’arte del trasformarsi in Lecce

Claudio Spagnolo

C’è un famoso personaggio di Woody Allen, di nome Leonard Zelig, che ha portato l’arte del trasformarsi alle sue estreme conseguenze. Se lo metti in mezzo a una squadra di campioni di baseball, impara in fretta a battere i fuoricampo. Se incontra un jazzista nero, comincia a suonare anche lui, scurendosi intanto a vista d’occhio. Se capita in un congresso di obesi, ecco che subito gli cresce la pancia. E se qualcuno lo manda dallo psichiatra per curare la sua sindrome, Zelig si immedesima col dottore al punto da diventare sull’istante, lui stesso, un luminare della sua stessa scienza.

E mi sa che il Catania di quest’anno, la sindrome di Zelig, se la porta addosso fin da inizio stagione: una sindrome che spinge i rossazzurri ad adattarsi mimeticamente all’avversario che incontrano, fino al punto da non distinguersi più da esso. Così è successo, domenica scorsa, quando i ragazzi di Rigoli sono riusciti a far la figura dei derelitti pur avendo di fronte – o meglio, proprio perché avevano di fronte – il derelitto Melfi; rischiando dunque seriamente di perdere contro l’ultima in classifica e di aggiudicarsi, da soli, quel posto così poco ambito.

È successo anche domenica quando, per fortuna, l’avversario cui cui mimetizzarsi era ben diverso. Ossia il Lecce, fino a quel momento imbattuto e ancor oggi, nonostante la sconfitta al Massimino, capolista del girone. Sarà anche vero, non neghiamolo, che se il Catania non ha preso gol deve fare una statua al suo portiere Pisseri; ed è evidente che, a sbloccare la partita, è stata una botta di fortuna con la C maiuscola: precisamente la bottarella sulle gambe di un difensore che ha trasformato un tiraccio balordo di Silva in una traiettoria avvelenata, lasciando il portiere avversario stupefatto in mezzo ai pali. Sarà vero, insomma, che contro il Lecce il Catania ha vinto ma avrebbe pure potuto perdere; ma è anche vero che i rossazzurri se la sono giocata alla pari con una squadra celebrata come uno schiacciasassi, dotata di un reparto offensivo così temibile da indurre i cronisti del luogo, addirittura, ad avventati paragoni tra un onesto attaccante di nome Giuseppe Torromino e, pensate un po’, l’incredibile Hulk. Il Catania insomma domenica è stato un po’ Lecce, così come, in diverse occasioni meno felici, gli era occorso di assomigliare un po’ troppo a un Taranto, o a un Fondi, o perfino a un Melfi. Per cui l’allenatore avversario, che le suddette partitacce  non le ha viste, ha potuto dire, forse un po’ avventatamente, che questa squadra potrebbe valere, addirittura, i primi posti del girone.

Certo ora, guardando il calendario, qualche motivo per stare in pensiero lo abbiamo. Perché se il Catania domenica prossima dovesse misurare le sue prestazioni sul livello tecnico della Paganese – squadra che sul campo ha fatto cinque punti in meno dei rossazzurri – non ci sarebbe da stare troppo allegri. Io mi preoccupo anche per un altro motivo: e cioè che i rossazzurri possano sviluppare la sindrome di Zelig non solo verso gli avversari, ma anche verso le persone che si aggirano intorno al campo d’allenamento. La scorsa settimana, hanno riferito le cronache, si è rivisto a Torre del Grifo il non più presidente ma ancora proprietario Antonino Pulvirenti. E non vorrei mai che questi ragazzi – costretti a rincorrere, in questo campionato, un handicap di sette punti di cui loro non hanno alcuna colpa – prendessero ad assumere pensieri, sembianze e atteggiamenti dell’uomo che, con le sue azioni e le sue scelte, è stato all’origine di quest’handicap e, prima ancora, dell’umiliante degradazione in Lega Pro.

Per favore, ragazzi, non guardate a bordo campo. E se proprio dovete assomigliare a qualcuno, cercatelo lì, tra voi, in mezzo al terreno di gioco. Magari lungo quella fascia destra su cui, al minuto ventotto della ripresa, Di Cecco ha strappato un pallone agli avversari, lo ha difeso con il cuore e poi lo ha regalato a Di Grazia. E quest’ultimo ha messo il cuore dentro le scarpe, si è fatto mezzo campo di corsa e l’ha messo lì, nell’angolo più lontano, dove il portiere non poteva arrivare. Con la determinazione di chi ha un’idea in testa e la voglia di trasformarla in realtà. Idee e voglia che fino a oggi sono spesso mancate, ma domani chissà.