Mister Rigoli e il mistero del perché: quello che un tecnico non può dire

fonte: calciocatania.it
Claudio Spagnolo

Per quanto il calcio non sia una scienza esatta, per quanto ognuno sia libero di vederlo come vuole, per quanto esso soggiaccia ai rotolanti capricci del caso… se c’è una cosa che un allenatore non può fare, al termine di una partita persa contro una squadra scarsa – una partita destinata a parole a esser l’occasione della svolta, ma poi andata esattamente al contrario di come si credeva e ci si aspettava che andasse – è allargare le braccia e chiedersi come mai sia successo quel che è successo. Invece, è precisamente questo ciò che ha fatto ieri a fine partita Pino Rigoli. Non so se facendo davvero con le braccia quel gesto di impotente rassegnazione. Ma facendolo comunque con le parole, e cioè dicendo ai microfoni della televisione, a proposito del rendimento esterno della squadra, ciò che non avrebbe dovuto dire: non so perché.

Non mi è chiaro se questa frase abbia influito sulla decisione della società – a dir vero un po’ tardiva – di esonerare Rigoli. Certo una frase del genere, da sola, sarebbe stata giusta causa per strappare il contratto. Ma come sarebbe a dire, scusate, che l’allenatore non sa perché? Se vado dall’avvocato per una bega di condominio, lui mi deve saper spiegare se e perché ho ragione, se e perché ho possibiltà di spuntarla davanti al giudice, se e perché conviene o non conviene portare avanti la causa. Se vado dall’oculista perché non ci vedo bene, lui deve essere in grado di capire cosa succede alla mia vista e risolvere il problema con la sua arte medica. Dunque, se si chiede all’allenatore della mia squadra perché – pure dopo una campagna di rafforzamento giudicata da tutti poco meno che strepitosa, soprattutto nel reparto avanzato – la squadra continua a fare schifo in trasferta producendo su azione mezzo tiro in porta, esattamente come se il suddetto reparto fosse costituito da anonime mezzepippe; se gli si chiede questo, l’allenatore ha il dovere di trovare un perché. Almeno uno. Sempre. Eccetto, forse, in un caso.

Perché, se è vero che l’oculista può guardare facilmente nei miei occhi e dirmi ciò che non va, è altrettanto vero che nessuno al mondo può riuscire a guardare nei suoi stessi occhi. E dunque può anche essere stato perfettamente sincero, Pino Rigoli, a dirci che non ha capito perché il Catania sotto la sua guida abbia continuato pervicacemente a buttar via lontano da casa quanto di buono costruiva al Massimino. Ma ciò implica che quel perché si trovasse esattamente dove gli occhi di Rigoli non avrebbero potuto mai guardare. E cioè negli stessi occhi di Rigoli, nel suo sguardo impaurito e incerto sulle partite giocate in trasferta. Nei limiti da cui l’allenatore è rimasto imprigionato e dai quali non possedeva, probabilmente, la chiave per uscire. Una chiave senza cui non avrebbe mai pututo liberare, da quegli stessi limiti, la squadra che ne era rimasta ugualmente prigioniera.

Resta da vedere se si troverà, questa chiave, nel mazzo di Mario Petrone, il successore di Rigoli. Il cui primo compito sarà appunto quello di capire il perché. Visto che sembra chiaro che il male del Catania non sta nelle gambe dei giocatori, ma in quel che hanno in testa ogni volta che scendono in campo lontano dal Massimino. In un certo senso, allenare la testa dei giocatori è più difficile che allenarne i muscoli. Ho visto più di una volta allenatori panzoni guidare squadre di atleti longilinei e instancabili. Ma non ho visto mai un allenatore fifone e confuso infondere nei suoi ragazzi il coraggio (e le idee di gioco) che non ha.

Fosse rimasto Rigoli, la stagione sarebbe inesorabilmente scivolata verso un finale già scritto. Il suo esonero, quantomeno, apre la porta al possibile. Se questo possibile sia anche probabile, potrà dirlo solo il campo. Ma forse anche questa risposta, quale che sia, è già scritta: e potremo leggerla solo nello sguardo, nel carattere e nella testa del nuovo allenatore del Catania.