Nomi vecchi e nuovi, ricordi, echi argentini: le speranze rossazzurre di fine estate

Claudio Spagnolo
Foto: Stefano Mortellaro

Foto: Stefano Mortellaro

E nonostante tutto, al lento declinare di quest’estate, con un’arrampicata appena iniziata da quota meno sei, cominciamo a mettere a coltura le speranze che dovranno scaldarci l’inverno. Non dico i sogni, che è parola troppo nobile per la povera prosa da terza serie in cui ci hanno precipitati: ma qualche speranza, piccola, sì. Per esempio quella di vedere in campo – da qualunque posizione li guarderemo: chi da esule volontario che al massimo osserva da dietro un computer, chi da abbonato immarcescibile accomodato in tribuna – uomini diversi da quelli che vestivano l’anno scorso la nostra maglia.

Uomini diversi, perfino se dovessero portare lo stesso nome e la stessa faccia di quelli della stagione trascorsa: perché non possiamo accettare – tantomeno dopo aver ammirato le traiettorie diaboliche che hanno castigato prima Akragas e poi Juve Stabia – l’idea che il Calil di quest’anno assomigli al giocatore svogliato e inconcludente che abbiamo visto pascolare per diversi mesi sui prati della Lega Pro. Né che il Russotto che verrà ricominci a sprecare il talento di cui Madrenatura l’ha dotato con lunghe pause di assenza o con inconsulte sparate da cartellino rosso.

E coltiviamo poi la speranza – opposta – che alcuni nomi che ci riempiono di ricordi e di nostalgia non siano solo la forma vuota del nostro sentimento. Che il Biagianti della stagione prossima sia ancora quello stesso Biagianti che vedemmo piangere, un giorno di giugno, sulla pista d’atletica del Massimino: piangere, perché era sul punto di lasciare la squadra e la città che l’avevano preso ragazzo e trasformato in calciatore. E piangere di un pianto sincero: tanto che, quella stessa estate, rifiutò il Palermo che pure insisteva per prenderlo. Mettiamola a coltura, sì, la speranza che Biagianti sia sempre il ragazzo e il calciatore che s’era meritato la fascia di capitano e l’affetto di noi tutti. E anche la speranza che Paolucci risulti di nuovo, dopo le stagioni opache che altrove ha attraversato, l’attaccante implacabile e spensierato che solo in rossazzurro è riuscito ad essere.

E coltiviamo ancora – perché no? – la speranza che in questa squadra allestita da Lo Monaco la pesca in Sudamerica dia risultati migliori di quelle di chi di recente lo ha preceduto. Che ad esempio il giovane brasiliano Gladestony Estevão Paulino da Silva non tradisca le promesse estive che ci ha regalato, ancor prima di farci sapere come diavolo dobbiamo abbreviare il suo nome. E a questa aggiungiamo la diversa speranza che nella nostra squadra, rispetto al passato, ci sia un po’ più di Sicilia, un po’ più di Catania. Sicilia e Catania che sono già nell’anagrafe di diversi ragazzi – come Andrea Di Grazia, Rosario Bucolo, Tino Parisi, Valerio Anastasi – che fanno parte della rosa. Ragazzi che ci piacerebbe vedere più spesso correre in campo; ricordando che in fondo, dieci anni fa, nell’ultima stagione rossazzurra conclusasi con una promozione, buona parte dei giocatori che scendevano in campo erano appunto siciliani.

Così, forse, non ci toccherebbe applaudire ancora come campioni giocatori del calibro di Rosina. Né doverci bere le loro promesse di fedeltà alla maglia anche di fronte alle sconfitte e al declassamento, per poi un giorno scoprirli intenzionati a svernare in rossazzurro da pensionati d’oro. Con tutte le ragioni giuridiche del caso, se si vuole, ma con troppo prosaico attaccamento al denaro per lasciare ancora a noi il lusso di qualche speranza.

Mettiamo pure le speranze a coltura, ora che comincia il campionato. E vogliamo bene alla nostra squadra – che è un bene di noi tifosi, assai prima che di chi al momento ne detiene le azioni – come gliene abbiamo voluto in questi anni. Senza mai chiudere gli occhi davanti a chi dissennatamente ne dilapidava le risorse. E senza fare come quei medici pietosi che, per tacere al malato i suoi malanni, finiscono all’ultimo per ammazzarlo. Senza pensare che, per voler bene alla propria squadra, alla propria città, al proprio lavoro, si debba voler male alla verità dei fatti. Senza nasconderci dietro nessun alibi e nessun vittimismo.

Solo così, forse, potrà nascere qualche fiore dal letame in cui ci hanno gettati.