Ordine pubblico e play off allargati: quante sconfitte (non solo del Catania)

Foto: Roberto La Forgia (Flickr.com)
Claudio Spagnolo

Delle sconfitte registrate nella prima giornata dei play off, quella che sul campo ha subito il Catania – dovendosi per forza di cose considerare sconfitta il pareggio in una partita che si doveva soltanto vincere – non mi pare né la più grave né la più preoccupante. Non è grave, perché neanche il più ottimista tra noi si sarebbe aspettato un’improvvisa metamorfosi dell’amorfo drappello che ci ha intristito per tutto l’arco del campionato. E neppure è preoccupante, perché di preoccuparci si è abbondantemente incaricato quanto accaduto da settembre a oggi, per non dir nulla dei tre anni precedenti.

Ma c’è una seconda sconfitta da registrare. Che non interessa stavolta il Catania, ma il sistema calcio nel suo complesso. Sistema che – quali che siano state le motivazioni addotte per la decisione, e a prescindere dalla disparità di giudizio rispetto ad altre gare non meno a rischio – si è ufficialmente dichiarato impotente a garantire l’ordine pubblico in un qualunque Juve Stabia-Catania. Una gara anonima, sì, ma anche una sfida da dentro o fuori per i play off. Che è cosa diversa, ben s’intende, da una delle trentotto gare di campionato che tutte le squadre devono regolarmente disputare. Se davvero non c’è modo di giocare partite del genere, in normali condizioni di sicurezza, con gli spalti colorati da entrambe le tifoserie, tanto varrebbe, queste partite, non giocarle. Perché una formula che lascia che gli ultimi esiti di un campionato siano così fortemente condizionati dal fattore campo non può permettersi – sia detto in generale, a prescindere dal Catania – di sbilanciare ulteriormente il rapporto tra le due squadre che devono contendersi il passaggio al turno successivo.

Ma forse, pensandoci bene, c’è una terza sconfitta di cui prendere atto. Che interessa anch’essa, a mio parere, l’intero sistema del calcio, o perlomeno quello di Lega Pro. Perché c’è da chiedersi che senso abbia iscrivere ai play off quasi metà delle squadre del campionato – ivi comprese squadre che i play off non li hanno meritati, come è stato certamente del Catania – escludendo in sostanza solo quelle a rischio retrocessione e pochissime altre formazioni cui si concedono le ferie anticipate. Ho la brutta sensazione che queste competizioni di fine stagione, che rischiano di capovolgere i valori e i verdetti maturati in mesi e mesi di campionato, abbiano fino a un certo punto a che vedere con il desiderio di aggiungere bellezza e interesse alla competizione. E non sono neanche sicuro che servano a produrre chissà quali guadagni. Temo invece che nascano dalla necessità di dare a tutte le squadre un obiettivo minimo per cui combattere fino all’ultimo minuto della stagione. Necessità a sua volta derivata dall’amara constatazione – magari confermata da qualche flusso anomalo nelle scommesse – che, quando una squadra non ha più nulla da chiedere al campionato, nessuno ha diritto di aspettarsi che si impegni, che affronti l’avversario con leale agonismo e che ciò non ispiri intese, più o meno tacite, per risultati comodi, prevedibili o peggio combinati. In altre parole, temo che quest’estensione indiscriminata dei play off sia un espediente che il calcio s’è dovuto inventare per inseguire un livello decente di lealtà sportiva. Ma, se non c’è altro modo per ottenere dallo sport ciò che, dello sport, dovrebbe essere l’essenza, vuol dire che ad aver perso, anche in questo caso, è lo sport stesso.

E comunque è ancora qui, in questa periferia del calcio, che ci toccherà continuare ad abitare. Per demerito di chi doveva rappresentarci, e ha deciso di farlo tradendo la nostra storia sportiva e i nostri valori.