Panettoni, granite e rame di Napoli: il bello e il brutto di allenare a Catania

Claudio Spagnolo

Allenare il Catania può essere una gran bella cosa, Pino Rigoli lo sa. L’ha anche detto diverse volte e credo l’abbia detto sinceramente. Che allenare il Catania possa essere una gran brutta rogna, però, Rigoli lo sta scoprendo in queste settimane. In cui sempre più spesso – troppo spesso, in verità – il tecnico deve misurarsi con la frustrazione di un ultimo posto che non si riesce a scalare, con il divario tra parole e fatti, con lo iato tra buoni propositi e pessimi risultati.

Bellissima cosa, sedersi dove siede Rigoli. Poche panchine di serie C potrebbero regalare pomeriggi come quello di otto giorni fa: quando una partita in sé insipida come quella contro il Messina ha regalato ai tifosi la bella storia di Andrea Di Grazia. E l’illusione che l’incantesimo si fosse finalmente rotto, che tra i rospi ingoiati in questi anni di scandali e umiliazioni ne potesse saltar fuori almeno uno capace di trasformarsi in bellissimo principe rossazzurro. Bellissima cosa, star seduti dov’è Rigoli, ma in verità anche molto brutta. Perché domenica scorsa a Melfi, Basilicata, sul campo dell’ultima in classifica, il rospo ha dovuto prendere atto di essere ancora rospo. E il pretenzioso principe, che almeno per un tempo è rimasto a specchiarsi nel suo inutile blasone, è andato molto vicino a prenderle dall’ultima in classifica. Che a quel punto non sarebbe stata più l’ultima.

Brutta cosa davvero, sedere al posto di Rigoli. Perché, per quanto Lo Monaco lo difenda a spada tratta, l’allenatore del Catania sa certamente che non c’è spazio dalle nostre parti per l’elegiaco rimpianto sulle occasioni mancate. Troppe ce ne sono da sgranare, nel recente rosario dei tifosi rossazzurri: la sconfitta interna contro l’Akragas che aveva regalato al tecnico la magra consolazione degli applausi, la partitaccia col Fondi dopo tutte quelle polemiche sul rinvio della gara, la prova insipida di Taranto. Una serie di occasioni mancate che, su qualsiasi altra panchina, significherebbero solo che l’allenatore non ha ancora trasmesso ai suoi giocatori la mentalità di chi entra in campo per mangiarsi la paura e mettere sotto gli avversari, almeno quelli che dovrebbero essere più scarsi. Ma che a Catania pesano molto di più: perché qui la squadra non deve giocare solo contro gli avversari e la paura, ma anche contro il proprio passato. Che – senza volerlo rivangare tutto – ci costa oggi sette punti di penalizzazione e la coscienza che, procedendo di questo passo, difficilmente si andrà oltre l’obiettivo di salvarsi.

La storia ci dice che nel Catania di Lo Monaco, che tutto è fuorché un trita-allenatori alla Zamparini, non ci si domanda in genere se il tecnico mangerà il panettone. I progetti sbandierati a inizio stagione, e rispolverati in settimana dopo i tre gol a Messina, scavalcavano agilmente la degustazione natalizia e quella della colomba pasquale, per proiettarsi verso la brioche da inzuppare nella granita per festeggiare degnamente i play off. E forse è davvero inutile, a proposito di Rigoli, discettare adesso sulla pasticceria natalizia. Stando a Lo Monaco, perché il tecnico non si tocca e continuerà a condurre la squadra verso gli obiettivi programmati. Stando a molti tifosi perché, al contrario, il panettone oggi è un traguardo fin troppo lontano. Perché, se il Catania è davvero quello di Melfi, il buon Rigoli corre il rischio di non assaggiare nemmeno le rame di Napoli.