Quattro stagioni all’Inferno: in cerca di un girone per punire colpevoli e ignavi

Claudio Spagnolo

Mesi fa, su queste pagine, si scherzava – danteggiando alla men peggio – sulle pene d’Inferno che ci infligge da troppo tempo questo Catania cui abbiamo il torto di voler bene. Adesso, praticamente finito quest’altro girone d’inutile sofferenza, vien quasi voglia di mandarcelo, il Catania, all’Inferno. Come peraltro hanno già fatto molti suoi tifosi, disposti a riscoprire tutti i possibili modi alternativi di passare la domenica pur di non prendere parte, neppure da spettatori, a quello scempio che sappiamo.

Mandarlo all’Inferno, d’accordo: ma dove? C’è da qualche parte, nella topografia dell’oltretomba sognata per noi dal sommo poeta, un posto adatto per infilarci i protagonisti rossazzurri di quest’altro, completamente inutile, anno calcistico? Di certo, a scorrere la cartina del regno di Lucifero, andrebbero scartati subito i gironi periferici. Quelli che puniscono peccati, non diciamo di no, mortali. Ma originati in fondo da un sentimento, da una passione, da un attaccamento alla vita che si farebbe fatica a riconoscere a una squadra catalettica qual è la nostra. Come potremmo immaginare il Catania, per dire, nella compagnia disperata ma appassionata di un Paolo o di una Francesca? E come associare gente che ci ha fatto passare il gusto di andare allo stadio a una colpa dannosa, sì, ma pur essa vitale, come quella della gola?

Bisogna scendere, non c’è dubbio. Perlomeno fino al girone che punisce insieme gli eccessi opposti dell’avarizia e della prodigalità, ossia dell’insaziabile fame di denaro e della contraria tendenza a spenderlo senza senso né logica. Eccessi che sembrano contraddirsi tra loro, ma che entrambi ben si attagliano a chi, tuttora, detiene la proprietà del Catania. A chi, da un lato, non è mai parso disposto a cedere la società se non a cifre che neppure zio Paperone avrebbe il coraggio di chiedere. Ma, dall’altro, ha dilapidato in pochi anni i tesori di un sodalizio un tempo additato a modello di gestione virtuosa, e oggi continuamente sull’orlo del tracollo finanziario.

Per quanto, a dir vero, molti protagonisti rossazzurri non starebbero male neanche tra gli iracondi. Dannati per l’eternità ad azzuffarsi tra loro con schiaffi, pugni e morsi, con la stessa sterile rabbia con cui spesso i nostri giocatori reagiscono alla frustrazione dei propri fallimenti sul campo. O con lo stesso furibondo impeto con cui la dirigenza, negli anni in cui è cominciato il tracollo, si scagliava contro chiunque osasse mettere in dubbio che tutto stesse andando per il meglio nel migliore dei mondi possibili. Continuando a farlo, peraltro, anche quest’anno. Mettendo sotto accusa le presunte Cassandre ree soltanto di aver visto per tempo le cose come stanno, e cercando di lenire il malumore con obiettivi sempre più modesti e – ciononostante – sempre più utopistici.

Oppure, forse, bisognerebbe trovare alla società Calcio Catania un posto tra i violenti. Violenti non tanto verso il prossimo, quanto verso se stessi. Essendo in fondo, in metafora calcistica, null’altro che un suicidio quello che ha portato la suddetta società dov’è adesso, partendo dai fasti ormai lontani della serie A. O ancora – scendendo ancora più sotto, scegliendo tra le varie possibilità offerte dalle Malebolge, e pensando stavolta più ai giocatori che alla società – verrebbe voglia di prenotare qualche posto tra i falsari. Nel senso che no, non ci riesce proprio di credere che queste schiappe travisate di rossazzurro siano davvero quel che dicono di essere, meritino sul serio di portare il nome o vestire la maglia del Catania.

Se no, dovrebbe esserci libero qualche posto lì in fondo, nel reparto surgelati dell’Inferno, tra i traditori immersi nel gelo del Cocito. Traditori, si capisce, dei valori e della storia di una squadra povera ma sempre dignitosa, che negli ultimi anni ha macchiato il proprio nome con figuracce del tipo che volentieri avremmo per sempre lasciato a una qualunque Juventus. Il Poeta ci spiega che, quando un uomo si macchia di un peccato del genere, la sua anima se ne va dritta dritta all’Inferno senza manco aspettare la morte. E che quindi, di garantire le funzioni vitali di quel corpo ormai privo di essa, si incarichi personalmente un demonio, che continua a portarselo a spasso per il mondo facendocelo sembrare vivo quando invece, ormai, la sua anima si bagna in Cocito. Metafora che ha la sua suggestione, ammettiamolo. A fronte di una squadra che l’anima l’ha perduta da anni, né dà avvisaglia alcuna di poterla in qualche modo riavere.

E si potrebbe scendere ancora. Se non fosse che il gelo sprigionato dalle ali di Lucifero troppo stona con l’accenno di primavera che, tutto sommato, ci sorride oggi da dietro le finestre. E se non fosse, soprattutto, che il posto all’Inferno di questo Catania non è probabilmente nessuno di quelli che il nostro umore melanconico ci ha stamattina indotto a elencare. Perché basterebbe, a un Catania così, assegnare il primo posto che si incontra appena varcata la porta della città dolente. Il posto peggiore, peraltro, secondo Dante. Il quale ha certamente più stima per i peccatori di quanta ne abbia per coloro che vissero senza infamia e senza lode. Per quanti cioè non hanno veramente vissuto, ma si sono lasciati vivere. Trascinandosi – senza il coraggio e la forza di scegliere e decidere per se stessi – in un’esistenza senza significato. Come senza significato è questa salvezza pressoché matematica che i rossazzurri non hanno conquistato – essendo riusciti a perdere per tre a zero sul campo dello scarsissimo Monopoli – ma dalla quale sono stati piuttosto conquistati, per il demerito dell’Akragas sconfitto sul campo del Cosenza. Salvezza ignava, della quale non merita di ragionare, ma che è già troppo il guardare per poi passare oltre. Sperando che oltre ci sia qualcosa. Qualcosa di diverso da questo trascinarsi verso un buio sempre più fitto. Un buio dal centro del quale, stando le cose come oggi stanno, è sempre più difficile immaginare che possano esserci, da qualche parte un giorno, delle stelle da rivedere.