Salti di gioia e cartellini gialli: signor Camplone, Le spiego che cos’è l’esultanza

Claudio Spagnolo

Premesso che di arbitri mi piacerebbe, di qui a fine campionato, dover parlare il meno possibile, c’è un episodio, accaduto durante Catanzaro-Catania, che vorrei capire meglio. È successo all’ottavo minuto del secondo tempo, immediatamente dopo il gol del due a zero segnato da Curiale; allorché l’arbitro si è avvicinato alla panchina del Catania e ha tirato fuori il cartellino giallo sventolandolo in faccia a due rincalzi rossazzurri: precisamente Di Grazia e Tedeschi, entrambi rei – stando a quanto si è letto nelle cronache – di aver superato i limiti entro i quali, beninteso a giudizio dell’arbitro, doveva essere contenuta l’esultanza.

Ho visto Lucarelli arrabbiarsi moltissimo con l’arbitro, e lo capisco. Ma a me l’episodio, prima ancora che rabbia, mette tristezza. Perché non riesco a capire cosa possano aver fatto i giocatori per meritare un cartellino che tra l’altro a Tedeschi – diffidato – costerà un turno di squalifica. Riesco a immaginare solo che si siano scatenati in un urlo barbarico e liberatorio e in qualche corsa repentina e un po’ scomposta. E con ciò?

Francamente, non saprei cos’altro sia l’esultanza, se non appunto un istintivo, immediato e schietto sfogo di felicità. Come peraltro ci garantisce la parola stessa, inventata dai latini per indicare – riporto testualmente dal vocabolario – il «saltare, saltellare, saltar su, dar balzi»; nonché, più in generale, il «muoversi liberamente, essere senza freno, agitarsi, sfrenarsi». Insomma, quello che immancabilmente ha fatto chiunque di noi abbia visto, sia pure per interposta telecamera, il pallone calciato da Curiale gonfiare per la seconda volta la rete del Catanzaro. E quello che sicuramente avranno fatto – e perché non avrebbero dovuto? – tutti o quasi tutti i componenti della panchina rossazzurra.

No, non mi spiego i cartellini. Salvo che il direttore di gara pensi che l’esultanza sia un’altra cosa. Salvo, per esempio, che egli associ la parola a una di quelle pantomime preconfezionate di cui è pieno il teatrino del calcio. A quelle scenette alquanto ridicole con cui, da alcuni anni, molti giocatori mettono alla prova, ogni domenica, le risorse del nostro buon gusto. E che costituiscono, secondo me, un segno evidente della decadenza dei tempi in cui viviamo.

C’è una scena che mi è rimasta impressa nella memoria, e che illustra alla perfezione la corruzione cui, negli ultimi anni, è andata incontro questa bellissima parola. Risale ai disastrosi mondiali disputati dall’Italia nel 2010 in Sudafrica. Nella partita contro la Nuova Zelanda, la Nazionale allenata da Lippi era appena riuscita a raggiungere il pareggio, su rigore segnato da Vincenzo Iaquinta. E quest’ultimo, all’atto di rientrare al centrocampo, anziché affrettarsi a riprendere il gioco per rincorrere la vittoria, convocò animosamente intorno a sé i suoi compagni additando più volte il proprio naso. Un naso importante, quello di Iaquinta: dinanzi al quale gli altri nazionali dovettero fermarsi per festeggiare il gol fingendo di suonare la vuvuzela: che poi sarebbe quell’insopportabile trombetta che ci straziò i timpani per tutto l’arco di quei mondiali.

Ora, deduco da questa triste scena che i giocatori di quella Nazionale, in allenamento, avessero impiegato parte del proprio tempo a trastullarsi con questo genere di minchiate. E ne deduco altresì che avessero dentro di sé una carica di tensione agonistica, un desiderio di gioia sportiva prossimo allo zero, o comunque insufficiente a produrre qualcosa che meritasse davvero di essere chiamata esultanza. Non dico qualcosa di simile a quella che eternamente rimarrà la più bella manifestazione di gioia per un gol, ossia quell’esplosione di rabbia, felicità, vigore atletico e senso di liberazione con cui Marco Tardelli, dopo aver segnato alla Germania il gol del 2-0 nella finale dell’82 al Bernabeu, attraversò di corsa un bel pezzo del terreno di gioco, trascinandosi idealmente dietro una nazione che, come lui e insieme a lui, urlava e impazziva di gioia. Ma insomma, via, qualcosa di più spontaneo e meno ridicolo di un uomo che trasforma il suo nasone in una molesta trombetta.

Se avessi più fiducia nella classe arbitrale, direi che sono queste le esultanze da punire con i cartellini: quelle idiote, quelle autoreferenziali, quelle costruite a tavolino. Ma mai e poi mai si dovrebbe sanzionare chi esulta per davvero, chi lascia per un attimo venir fuori un sentimento vivo, fa emergere passioni reali, regala a sé stesso e agli altri un momento di sincerità. Se nel calcio c’è ancora qualcosa di bello, secondo me, bisogna cercarlo in momenti così. Per esempio, nella schiettezza di questa onestissima corsa di Curiale verso una curva vuota, a far festa con dei tifosi che non sono sugli spalti ma immagino siano lo stesso, in questo momento, nei suoi occhi di capocannoniere. E nella gioia dei compagni, che lo insegue urlando dalla panchina. Offendendo, in quello stadio ammutolito e spazzato dal vento, soltanto la vibratile sensibilità del signor Camplone da Pescara.