Sant’Agata e il Calcio Catania: sottile confine tra sacro e profano

Marco Di Mauro

Sant’Agata e il Catania. Due sono le cose che per un catanese verace contano più delle altre. Due cose che soffre tremendamente a lasciare, che sia per un anno intero o anche solo per una settimana. Due cose che solo a vederle, anche a migliaia di chilometri di distanza, riescono a farlo sentire come a casa. Due cose ben distinte ma che tenere separate non è semplice, specie nei giorni in cui la linea di confine tra sacro e profano si fa più sottile. Come nei giorni delle festività agatine, come in occasione dei momenti più delicati della vita della società.

La fede per la santa patrona della città e quella per la squadra rossazzurra sembrano rappresentare l’una la parte spirituale e l’altra quella più marcatamente terrena dell’essenza stessa della catanesità. Due aspetti complementari, che dovrebbero iniziare l’uno dove termina l’altro. Anche per questo al Massimino non si giocherà mai dal 3 al 6 febbraio (e quest’anno non fa eccezione). Ma la storia racconta che più d’una volta le due metà si sono sfiorate, toccate e pure mescolate. Come accade in piazza Borgo, questo febbraio, quando il passaggio di una candelora viene accolto da una serie sterminata di palloncini rossi e azzurri con la scritta “W S.Agata”. O come accaduto in passato quando i portatori di una candelora indossarono la maglia da gioco rossazzurra. O con la gara di resistenza che fecero due candelore caricandosi l’una Morimoto, l’altra Spinesi.

Più volte, nella storia, è capitato che squadra e dirigenti s’affidassero alla Santuzza prima di sfide particolarmente importanti. Nell’estate del 2003 il Catania lotta nei tribunali sportivi e ordinari per vedere riconosciuto il suo diritto a rimanere in serie B. Sul petto di Riccardo Gaucci, che è perugino ma della squadra rossazzurra è presidente, appesa a una collanina pende la medaglietta con raffigurata Sant’Agata. «Me l’ hanno regalata i tifosi del Catania – dice – La porto sempre con me». Alla fine vincerà quella battaglia, come aveva vinto la stagione precedente quella giocata sul campo di Taranto contro la squadra di casa.

Si trattava della finalissima playoff che permise al Catania di conquistare la promozione in B. Sugli spalti dello Iacovone, nel settore dedicato al migliaio di intrepidi tifosi catanesi, per tutta la partita campeggiò uno striscione: «Noli offendere patriam Agathae, quia ultrix iniuriarum est» (trad. «Non offendere la patria di Agata, perché è vendicatrice delle offese»). Fu la risposta all’offesa che una parte del pubblico tarantino, durante la partita giocata nel corso della stagione regolare, aveva rivolto alla santa patrona. La stessa frase che la leggenda attribuisce a Sant’Agata e che sostiene sia apparsa nel libretto dell’imperatore svevo Federico II.

Nel 1230 circa, il sovrano era intenzionato a uccidere tutti i catanesi perché a lui ostili. Ma dopo quell’episodio, stando sempre alla leggenda, rinunciò. Fatto sta che l’acronimo NOPAQUIE campeggia oggi sopra una delle entrate laterali della ricostruita cattedrale tardo seicentesca che si trova in piazza Duomo. Proprio dove hanno sede i momenti più intensi delle festività agatine. Festività che, nel 2007, furono celebrate senza fuochi d’artificio né altre cerimonie folkloristiche. La ragione stava in quanto accaduto pochi giorni prima al Massimino, il 2 febbraio. Nei disordini che accompagnarono il derby tra Catania e Palermo perse la vita l’ispettore di polizia Filippo Raciti.

Quella partita era iniziata con la curva Sud che espose una gigantografia di Sant’Agata per accogliere le due squadre in campo. Doveva essere una festa, finì però in tragedia. Una tragedia di cui quest’anno ricorre il decennale. Quasi 70 anni ricorrono invece dalla finale giocata a Milano tra Catania e Avellino, valida per gli spareggi per la promozione in serie B. Per la prima volta Nicolò Carosio fece la radiocronaca di una gara di serie C. L’Avellino vinse per uno a zero ma la società rossazzurra presentò ricorso denunciando un caso di corruzione. In quell’occasione il presidente Lorenzo Fazio consegnò alla stampa una frase che rimase nella storia: «Abbiamo perso sul campo, ma vinceremo a tavolino, viva Sant’Agata». E così fu.

Una sintesi tra sacro e profano che, anche oggi, non sembra aver perso di attualità.