Sconfitte, panchine, zavorre e disamore: quel che purtroppo ci resta della serie A

Claudio Spagnolo

Messo da canto il fatto che il prossimo avversario del Calcio Catania si chiama Virtus Francavilla (che la scorsa stagione giocava in D e che adesso precede i rossazzurri in classifica), volendoci pensare, non è poi vero che sia cambiato proprio tutto da quando eravamo in serie A. È proprio da quando eravamo in A, anzi, che non ci capitava di subire cinque sconfitte consecutive come da poco ci è accaduto. Che non ci occorreva di imbatterci in una serie negativa come quella che all’epoca costò la panchina a Maran, o come quella da un mese a questa parte costringe il buon Giovanni Pulvirenti a viaggiare con zero punti nel suo personale serbatoio.

E fu già in serie A, se ci pensiamo, che dovemmo far conoscenza con un destino che a noi fino ad allora era sempre stato sconosciuto (mentre a Palermo, sotto Zamparini, era storia di tutti i giorni). Quello cioè di veder andare e venire gli allenatori dalla nostra panchina in un valzer estenuante e un po’ insensato. Che allora fece volteggiare senza gran successo Maran, De Canio, ancora Maran e infine Pellegrino. E che quest’anno – sempre che sia finita qui – ha visto alternarsi Rigoli, Petrone e Pulvirenti, senza che nessuno sia riuscito ancora a capirci granché.

Ed eravamo ancora in serie A, in effetti, quando finì la lunga luna di miele tra la società e un buon pezzo della tifoseria. Anche se le pratiche del divorzio furono sbrigate solo l’anno dopo, in serie B: allorché alcuni tifosi decisero per la prima volta – come probabilmente accadrà anche questo pomeriggio, per la sfida contro il Francavilla – di disertare in massa lo stadio e lasciar vuoti gli spalti per protestare contro l’amministratore delegato Pablo Cosentino. La cui resistibile ascesa coincise dunque con le prime incrinature – ancora marginali ma già ben visibili – nella fiducia che l’ambiente aveva fino ad allora nutrito nel presidente Pulvirenti.

E, del resto, fu già ai tempi della serie A – e poi, ancora più marcatamente, in quelli della B – che la società brevettò il suo originalissimo modo di concepire i rapporti con chi il calcio prova a raccontarlo. Consistente nel coccolare chi, con ovina mansuetudine, dava per buone le sempre meno credibili verità ufficiali che trapelavano dal quartier generale. E nel chiudere bruscamente i cancelli dello stadio o le porte di Torre del Grifo a chi faceva una domanda di troppo, a chi praticava il salutevole esercizio del dubbio, a chi rifiutava di difendere – con l’ipocrisia dell’applauso o con la complicità del silenzio – le sempre meno difendibili scelte che ci avrebbero precipitati dove ora siamo. Una prassi alquanto stolta, questa. Che però, a quanto pare, sembra esser tornata di moda negli ultimi tempi. Sulla base della inspiegabile convinzione che basti tagliare il dito che indica la luna per far sì che nessuno guardi più il cielo.

Saranno quattro anni, ormai, che ci trasciniamo dietro diverse delle contraddizioni che ci hanno sprofondato fin qui. Augurandoci a volte – con tutto l’ottimismo di cui la volontà è capace – che la risalita possa cominciare nonostante le zavorre che ci portiamo addosso. Riconoscendo spesso – con il pessimismo della ragione cui la realtà ci costringe – che la natura delle zavorre resta quella di trascinare verso il basso. Se così non fosse, del resto, non staremmo come stiamo.