Stemmi, statue e attributi: storia di palle e di palloni

Claudio Spagnolo

In una bellissima piazza di Venezia campeggia il monumento equestre a Bartolomeo Colleoni, capitano di ventura del secolo quindicesimo, guerriero di stirpe longobarda e d’imprese nobili e illustri. Chi osservasse lo stemma di famiglia del condottiero, tuttavia, potrebbe restarne spiacevolmente colpito. Poiché tale stemma, volendo dar ragione del cognome della stirpe, rappresenta ber ben tre volte, con rispetto parlando, un paio di testicoli: forse a significare che i Colleoni possedevano in abbondanza quegli importanti accessori, che da sempre si associano all’idea di virilità, coraggio, determinazione e scaltrezza. Sarà per via di questo stemma che s’alimentò la leggenda, pare infondata, che il Colleoni fosse affetto da una rara sindrome detta poliorchidismo: consistente nel possedere in triplice copia quel che in genere viene rilasciato a metà degli esseri umani in due soli, irripetibili esemplari.

Temo che l’allenatore della Paganese Gianluca Grassadonia, evocando nelle interviste domenicali i summenzionati ninnoli, subito dopo un’evitabile sconfitta, non intendesse però esattamente mischiare anatomia ed eroismo. Come certo ha fatto, e di proposito, l’inventore dello stemma. E come, un po’ più fortuitamente, è occorso una volta pure a Oronzo Canà.

Sappiamo bene infatti che le sullodate ghiandole – quando metaforicamente non designano più una parte, per quanto vistosa, dei loro possessori, bensì i possessori stessi nella loro interezza, i quali con essi vengono quindi a identificarsi – perdono all’improvviso ogni positiva connotazione per designare, come ognuno sa, null’altro che balordaggine e minchioneria.

Va pur detto che di metafore ed esagerazioni, naturalmente, stiamo parlando: poiché tutti noi, nessuno escluso, oscilliamo nell’arco della nostra vita tra questi due estremi. Tutti viviamo alternativamente momenti in cui ci sentiamo orgogliosamente proprietari di un invidiabile paio di, chiamiamoli così, bartolomei; e altri in cui, nell’imbarazzo e nello sconforto, confessiamo a noi stesso di essere solo dei gran colleoni. Nessuno abbia a dolersi, dunque, quando si sente rivolgere epiteti del genere: la condizione di bartolomeo fa parte della nostra umana imperfezione, ma è in genere transitoria e fortunatamente rimediabile.

Detto questo, immagino che, se Grassadonia avesse avuto tra i suoi giocatori l’attaccante rossazzurro Andrea Russotto, non sarebbe andato a scegliere altrove le metafore per il comportamento da lui tenuto una settimana fa. Giacché non si capisce che motivo abbia avuto Russotto di tirare in ballo il Creatore, in modo alquanto irriverente, quando qualcuno – dopo la bella vittoria sul Lecce – l’ha raggiunto negli spogliatoi comunicandogli che la sorte aveva scelto le sue urine per controllarne la purezza nonché l’assenza di sostanze proibite.

L’indebita unione di sacro e profano è costata al pur talentuoso attaccante rossazzurro un turno di squalifica. E ha dato un’ulteriore risposta a chi, apprezzandone le doti tecniche, si domanda ancora perché Russotto galleggi in serie C. Un giocatore che si rispetti – questa è la risposta – non deve mai e poi mai rischiare che gli si dia del bartolomeo. Deve piuttosto – come spesso invocano a fare i tifosi dalla curva – tirar fuori i propri bartolomei, nella mischia della partita, quando il campo chiede appunto impegno, decisione e freddezza.

Buon per noi che il Catania, contro la Paganese, ha fatto proprio questo. Reagendo allo svantaggio, per una volta, con il piglio di chi sa di essere arbitro del proprio destino ed è deciso a costruirlo. Facendo quindi quel che non ha fatto in tante partite – vedi Reggio, vedi Taranto, per dirne solo un paio – in cui i nostri si sono fatti sfuggire la vittoria come degli autentici bartolomei. Contro la Paganese, no. Appena tre minuti dopo il gol subito, Paolucci – fino a quel momento forse il peggiore in campo – ha messo il piede giusto nel posto giusto e ha allontanato il pericolo di un’altra testicolare sconfitta interna. Poi è stato Biagianti – che di sicuro non è un goleador – a metterci rabbia, coraggio, determinazione. Realizzando una rete che sarebbe stato da colleone sbagliare. E che una squadra coi colleoni, in quel momento, doveva per forza segnare.

Ma poiché ciascuno di noi oscilla, l’abbiamo detto, tra il possedere gli attributi di che trattasi e l’essere egli stesso, poco lodevolmente, uno di quegli attributi, la partita di domenica non deve illudere nessuno. Salvo che il futuro ci dica che il Catania sa mostrare anche lontano dal Massimino quel che in casa, ultimamente, ci è parso che possedesse. Smettendola di farci girare i bartolomei, più o meno a settimane alterne, ogni volta che accendiamo la tv per seguirlo in trasferta.