Tanto riposo per nulla, a Reggio niente festa. Ma era più bello il calcio senza anticipi né Tv

Alan Levine
Claudio Spagnolo

Il Catania arrivava da favorito a Reggio Calabria: aveva riposato qualche giorno in più, sottraendosi di fatto alle fatiche del turno infrasettimanale. O anzi, pensandoci meglio, è sceso in campo decisamente svantaggiato: il rinvio della partita con il Fondi, prevista per domenica scorsa, ha infatti interrotto l’irresistibile ascesa della nostra squadra verso la zona della classifica che sta al di sopra degli zero punti.

Comunque la si giri, e comunque fosse finita la partita, ci sarebbe stato sempre un alibi per chi fosse rimasto deluso dal risultato. È toccato ai rossazzurri, anche se va riconosciuto che Rigoli non ha molto insistito sull’argomento. E del resto, se domenica scorsa a sbrindellare un po’ il calendario ci ha pensato Renzi, stavolta la Lega ha fatto il suo, fissando la partita infrasettimanale nel più improbabile degli orari: alle 16.30 di un pomeriggio feriale di fine estate.

Per una gara alla quale molti catanesi, magari, avrebbero volentieri dedicato le festose incombenze di una trasferta. Pazienza: il fatto è che, da quando perfino in serie C la Tv ha imposto le sue leggi calendario, lacerando ogni giornata sportiva in più giorni solari, ogni giorno solare in diverse fasce orarie – e complicando il tutto con le partite saltate per ripescaggi o altre simili ragioni –, il programma del campionato è sempre più diventato un semplice ingrediente di una torta che altri assaporano. Torta che ha a che fare con i diritti delle Tv, o almeno dei loro sostituti virtuali.

Una torta che poi, per noi, si riduce davvero a poca cosa: vedere la partita in quasi diretta, sui televisori di casa troppo generosi in fatto di pollici; ascoltare il familiare commento di un telecronista che la guarda anche lui il gioco davanti a uno schermo; e smoccolare un po’ perché quei televisori, magari, li avevamo comprati anni fa per goderci, nello splendore dell’alta definizione, il nostro Catania che, sui i campi della serie A, si guadagnava stagione per stagione primi piani mozzafiato e telecamere personalizzate. Vien nostalgia, quasi, di quando le partite in trasferta non potevamo vederle affatto.

Non dico dei tempi antichi, in cui a tenerci al corrente del risultato c’era solo Tutto il Calcio minuto per minuto (a condizione che il Catania giocasse in categorie superiori alla C o che, almeno, fosse in schedina). Né di quelli un po’ più recenti in cui, precipitata la nostra squadra in categorie infime, ci restava solo da compulsare ossessivamente il Televideo per capire a che punto eravamo. Ma nostalgia, almeno, dei tempi delle prime radio libere. E delle prime avventurose dirette dai campi della provincia, condotte con sprezzo del pericolo da tribune stampa piuttosto improvvisate.

Funzionava così: il radiocronista si piazzava nella sua postazione, smontava un telefono, infilava un accrocco in ciascun lato della cornetta, e aveva così trasformato un normalissimo apparecchio a rotella in una cuffia altamente professionale. E quindi, lungo la linea Sip che allora nulla sapeva di fibre ottiche, né di Internet, né di alta velocità, viaggiavano – al costo allora non indifferente di un’interurbana – le parole che in modulazione di frequenza ci avrebbero raccontato la gara. Ho nostalgia, sì, per quei tempi: perché allora il difetto degli occhi diventava privilegio del cuore.

E anche la più brutta partita, ricostruita dalla fantasia grazie alla voce del radiocronista, si trasformava in un piccolo pezzo di epica. Se gli avversari s’avvicinavano alla nostra porta, la voce di chi raccontava si faceva più sommessa. E ci sentivamo un po’ come a Troia assediata dagli Achei, con la paura che a stenderci, alla fine, fosse l’impeto di qualche Achille, o l’inganno di un cavallo fabbricato con la complicità dell’arbitro. Se invece eravamo noi ad attaccare, i transistor delle radio di allora – apparecchi di dimensioni spesso assai abbondanti – ci regalavano qualche decibel in più. E ogni nostro improbabile pallone lanciato verso l’area di rigore diventava un’occasione di felicità il cui sfumare ci pareva, ogni volta, un’incredibile disdetta.

Raccontato così, però, il calcio ci pareva ancor più bello di quel che era. E del resto era bello davvero, quel calcio. Anche perché, allora, lo si giocava tutti insieme, alla domenica, all’ora del caffè. Ma è inutile, ora, abbandonarsi alla nostalgia. Delle partite di oggi vediamo ormai tutto, compresa la noia che ne segna lunghi tratti. Vediamo tutto: a condizione di riuscire a ricordarci, ogni settimana, in che giorno e a che ora si giocherà.