Quando il calcio era il calcio: chi ha ucciso le radiocronache della domenica?

Claudio Spagnolo

Parecchi anni fa, quando il calcio era ancora il calcio, l’unico modo per viverlo da lontano, alla domenica, era la radio. Era il tempo in cui musiche e parole viaggiavano da poco in modulazione di frequenza. E in cui le imprese della squadra che avevamo nel cuore ci arrivavano in collegamento da ogni stadio, foss’anche il più sgangherato della serie C, grazie a voci alle quali, allora e per lungo tempo, non avremmo saputo dare un volto.

Ricordo anche come i radiocronisti, ai tempi in cui ogni città fioriva di radio, si preparavano alla diretta. Collegavano alla presa un comune telefono a rotella, smontavano le due estremità della cornetta, attaccavano da un lato una cuffia e dall’altro un microfono e affidavano alla loro voce il compito di farci immaginare le partite del Catania. Con il non trascurabile vantaggio di farcele sembrare, non di rado, molto più belle di com’erano veramente. Un’interurbana, certo, all’epoca costava un patrimonio. Ma credo che le emittenti si rifacessero in pubblicità – interruzioni brevissime, del resto, concentrate quasi tutte nell’intervallo – di quanto spendevano per spedire i loro inviati sui più lontani campi della provincia italiana.

E il bello è che funzionava. Tant’è vero che, per quanto lontani e velati di nostalgia possano essere i miei ricordi di questo modo di raccontare il calcio, credo di poter garantire che non una sola volta sia successo, a quei tempi, quel che invece è successo domenica ai tifosi del Catania. E cioè di pagare un biglietto o un abbonamento virtuale per vedere la partita di Monopoli. E rimanere per tutto il tempo con i monitor oscurati, o tuttalpiù con una strana, breve sequenza ripetuta ossessivamente: il Catania che, intorno al nono minuto, batte un fallo laterale, gli sviluppi insignificanti di quest’azione, il cronometro che subito dopo retrocede senza un perché al quinto minuto di gara e, infine, le immagini che scompaiono dallo schermo.

Per carità, non ho nulla contro la televisione. E nemmeno contro i suoi surrogati virtuali che viaggiano su Internet. Ma non capisco perché, dopo i tempi belli e semplici del calcio raccontato in interurbana, si sia sentito il bisogno di complicarsi tanto la vita. Inventando per esempio – non serve esser troppo vecchi per ricordarlo – quelle strane radiocronache trasmesse in Tv, in cui a volte una telecamera si fissava sul pubblico o sulla faccia del radiocronista. Che avrebbe dovuto ancora, come un tempo, evocare nella nostra fantasia le immagini del gioco. Ma che non poteva neanche evocarle liberamente, costretto com’era da non so qual clausola contrattuale a raccontare la partita in lieve differita, infarcendola di commenti, o lasciandoci per attimi che duravano secoli con il dubbio su cosa mai fosse successo – in quello stadio che era intanto diventato una bolgia – mentre lui doveva temporeggiare perché non si dicesse che ce l’aveva raccontando in diretta.

Poi, quando finalmente siamo andati in serie A, è venuto il tempo di Sky. Che non ha certo aggiunto poesia al racconto del calcio, e che in più ne ha sottoposto giorni e orari alla dittatura del palinsesto. Ma che aveva almeno l’indiscusso pregio di mostrarci la partita in tempo pressoché reale, con tutti i vantaggi dell’alta definizione. È vero che, anche durante questi lunghi anni di Sky, sono sopravvissute quelle radiocronache ibride, trasmesse senza immagini di gioco dalle tv locali. Ma, per forza di cose, sempre meno numerosi sono diventati i tifosi disposti a preferire una voce in lieve differita a una diretta fedele fin nei minimi dettagli. Ed era logico che fosse così.

Tra le pene accessorie della serie C ce n’è una chiamata Sportube, o Eleven Sports che dir si voglia. Una piattaforma online che ha l’ambizione di fare quello che fa Sky per le categorie maggiori, ma che trasmette con attrezzature di quart’ordine e con l’unica certezza di non farti vedere mai, per nessun motivo, una partita dall’inizio alla fine senza che vi si frappongano problemi di ogni tipo, naturalmente sempre indipendenti dalla volontà di chi trasmette. Una piattaforma che in ogni caso te le mostra, quelle partite, con alcuni minuti di ritardo sul loro reale svolgimento. Sicché, se per dire abiti vicino allo stadio e stai seguendo in quel modo la tua squadra, il boato del pubblico che esulta ti raggiungerà quando, sul tuo schermo, il pallone destinato a finire in rete si trova ancora tra i guanti del tuo portiere, o perduto in mezzo ai cartelloni lungo la linea del fallo laterale. Condannandoti a un calcio continuamente spoilerato, rubando ancora al pallone quel po’ che gli resta della sua magia e della sua emozione.

Domenica scorsa, di fronte all’ostinazione con cui questa penitenziale piattaforma ci negava le immagini della partita, ho, come credo tutti, fatto zapping. E mi sono accorto di una cosa triste: i radiocronisti magari ci sono ancora, ma non esistono più le radiocronache. Nel senso che era anche possibile trovare qualcuno che, dallo stadio di Monopoli, ci raccontasse con la sola risorsa della sua voce quella che poi è stata l’ingloriosissima disfatta del Catania. Anzi, in quello stadio, c’era addirittura una telecamera, in realtà superflua, con inquadratura fissa sul volto del cronista.

Ma a nessuno è venuto in mente – immagino, anche stavolta, per ragioni legate ai diritti – di fare la cosa più semplice e naturale del mondo: cedere la parola al cronista e lasciargli raccontare, dal primo all’ultimo minuto, ciò che stava accadendo in campo. Come sarebbe bello che potesse succedere ancora, se qualcuno volesse di nuovo regalarci, in un calcio sempre più brutto, almeno quel tanto di bello che è il bello della diretta. Ma come purtroppo non può più succedere da molto tempo, forse addirittura dal tempo in cui il calcio era il calcio. Tempo in cui noi, più giovani e più felici di adesso, avevamo ancora orecchie per ascoltarlo e fantasia per sognarlo.