Se in campo scendono i matelici: contro il Melfi novanta minuti di nulla

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Claudio Spagnolo

Ci sono giorni in cui odio il calcio, e ne cambierei tutte le regole. Per esempio, quella stupida limitazione che consente solo all’allenatore di fare i cambi – conferendogli l’ingiusto e terribile potere di sbagliarli tutti – e in più ne restringe il numero a soli tre giocatori. Una norma che impedisce di mandare subito a farsi la doccia tutti coloro che non si dimostrano degni della maglia che vestono. Come sarebbe stato il caso di fare, senza il minimo dubbio, con quasi tutti i giocatori del Catania schierati in campo contro il Melfi.

Perché io credo che anche il più imberbe dei raccattapalle, il più scadente tra i calciatori falliti seduti in tribuna, il più spolmonato dei tifosi tabagisti, il più malandato degli ultraottuagenari presenti sugli spalti, se avessero avuto modo di scendere in campo loro, nel bel mezzo della partita, avrebbero gettato nella mischia più voglia di vincere, più rabbia, più determinazione, più rispetto per la maglia di quanto ne hanno dimostrato – fatta l’eccezione per il solito splendido Pisseri – tutti i giocatori rossazzurri schierati da Petrone.

Del resto mi pare che, perfino componendo una squadra così alla Brancaleone, sarebbe stato comunque difficile commettere uno sproposito tattico più insensato di quello visto in campo al Massimino. Dove l’allenatore è parso convinto che bastasse moltiplicare il numero degli attaccanti per aumentare il numero dei gol. Cosa che purtroppo – con buona pace della nota passione di Petrone per le statistiche – non corrisponde affatto a verità.

E comunque, anche con soli tre cambi a disposizione, bisognerebbe fare subito qualcosa quando ci si accorge che la propria squadra sta giocando in modo così matelico. Termine, questo, intraducibile in italiano, ma che mi pare possa in parte descrivere l’altezzosa sicumera cui spesso i nostri giocatori si atteggiano, guardando dall’alto in basso avversari di minor blasone (e che però almeno, a differenza loro, si arrabattano onestamente per sbarcare il lunario).

Fin troppo matelici, sì, i giocatori del Catania: che assai spesso scendono in campo supponendo di saperla più lunga degli altri, ma senza essere disposti a versare una sola goccia di sudore per dimostrarlo. Convinti come sembrano che dovrà pensarci l’avversario più scarso a farsi gol da solo, che sarà compito del pallone infilarsi spontaneamente nell’altra porta. E sarebbe già tanto se fosse questa, la spiegazione giusta della partita di ieri. Perché alcuni, a fronte di ciò che s’è visto in campo, domenica hanno sentito di nuovo bruciare sulla pelle – e spero di cuore che si siano sbagliati – le vergogne recenti per cui siamo finiti in serie C.

Ma stiamo ai fatti: quando ieri – giusto per fare un esempio, perché mai come questa volta è difficile capire chi sia stato il peggiore in campo – ho visto Russotto toccare il primo pallone sulla fascia destra e svirgolarlo presuntuosamente verso il nulla nella convinzione che da quel gesto senza senso potesse nascere chissà quale giocata sopraffina; quando l’ho visto continuare a passeggiare senza costrutto sul campo per tutto il tempo che c’è stato – come se fosse capitato lì controvoglia e per degnarci d’un favore – ho subito sentito che quella di ieri sarebbe stata un’altra delle tante prestazioni mateliche di cui il Catania è stato prodigo lungo questo campionato. Che potesse finire come è finita, no, non lo pensavo. Ma che sarebbe stata una partita matelica, era chiaro fin da principio. Il che, a questo punto della stagione, sarebbe già abbastanza per alzarsi dalla tribuna. O, secondo i casi, per cambiare canale.

Che poi, una partita così indicibilmente vergognosa, il Catania non ce l’ha neanche inflitta in un giorno normale. Ma proprio ieri che, allo stadio, c’erano gli striscioni che ricordavano Massimino. E, insieme a lui, un calcio di altri tempi e di altre passioni. Un calcio irrimediabilmente lontano da quello cui ci è toccato assistere ieri. Lontano da quel nulla che in campo esibiva se stesso. Come se bastasse chiamarsi Catania per meritare di esserlo.