Il Catania delle favole e quello della realtà: se la zucca non diventa carrozza

Foto: Life Pilgrim - Flickr
Claudio Spagnolo

E dunque rieccoci, come ogni settimana, dentro il lungo sabato che precede la partita. Nella logorante attesa che, in un pomeriggio di domenica finalmente diverso dagli altri, si concretizzi un qualche, sia pur piccolo, incantesimo. E pazienza se non possiamo chiedere nulla più di una magia minuscola e del tutto prosaica, come sarebbe il semplice rientrare nel modestissimo rango di partecipante ai playoff, in questo men che modesto campionato di serie C. E poco importa se oggi deve sembrarci quasi un miracolo ciò che, pochissimi anni addietro, sarebbe per noi suonato come una minaccia. Il fatto è che sotto gli occhi abbiamo quella zucca vuota che è diventato il nostro Catania, e ce l’abbiamo da così tanto tempo che ci sentiamo in diritto di pretendere che la zucca, un giorno o l’altro, si decida a trasformarsi in una sontuosa carrozza.

Ci vorrebbe tanto, alla fine? Basterebbe che Pozzebon tornasse ad assomigliare al combattivo attaccante che abbiamo un po’ invidiato quando vestiva la maglia del Messina. Che Tavares, senza dover diventare un fenomeno, riuscisse a mettere dentro la palla almeno sul più elementare dei contropiede. Che Marchese traesse dall’esser stato un difensore di serie A, e non dei peggiori, qualcosa di diverso dall’altezzosa sufficienza con cui oggi sbaglia le marcature più elementari. Che Biagianti manifestasse il suo attaccamento alla maglia andando al di là del solito, bisbetico e sterile battibecco con l’arbitro di giornata, buono solo a fare andare avanti il cronometro verso il minuto finale della prossima sconfitta. È colpa nostra se – considerata anche la modestia di queste aspettative – ci sorprendiamo ancora a sperare che la prossima domenica sia diversa? Se non riusciamo a rassegnarci al fatto che una zucca sia una zucca, per quanto dipinta con i nostri bei colori?

Ché poi, quando alla domenica il campo ci ripete che non c’è motivo di illuderci, ci viene da cambiar canale se sentiamo il cocchiere della zucca – l’innocente allenatore Giovanni Pulvirenti – che prova a convincerci che la squadra cresce, che a lui è piaciuta anche se ha perso e che insomma, se non è ancora diventata una carrozza, alla zucca sono almeno spuntate le ruote: che comunque è già qualcosa. Ci arrabbiamo, ma poi scivoliamo verso la domenica successiva con la stessa flebile illusione: che le ruote si mettano a girare, che l’inespressa forza della squadra esploda all’improvviso, che venga fuori un po’ di sostanza dietro i nomi, i ricordi, i rimpianti che ogni settimana scendono in campo con indosso le nostre maglie.

Fin qui, anche quest’anno, non è stato che un prorogare attese e un rinviare i conti con i nostri mali veri. Che si sostanziano – perfino al di là del giudizio su ciò che l’attuale proprietario ha fatto alla nostra squadra, e ben al di là dell’ipotesi che quest’ultimo rimetta uno di questi giorni piede allo stadio – nella gravosa eredità di debiti, scadenze da onorare, creditori da blandire e difficoltà a tirar fuori i soldi che la precedente gestione societaria ha lasciato sulle spalle di Lo Monaco. Ma alla fine, quando si è tifosi, si può anche decidere di non pensarci e di guardare solo alla prossima partita, con tutto l’ottimismo irragionevole di cui è capace la volontà. Probabilmente – a giudicare, almeno, da ciò che si vede in campo – non è altrettanto facile farlo per i giocatori. Che forse ne sanno più di noi, su quei mali che Rigoli ha dichiarato di non aver capito, davanti a cui Petrone è scappato e che il nuovo tecnico Pulvirenti ha detto di voler lavare in famiglia. Stando al campo, i giocatori sembrano quelli che ci credono meno. Forse perché, a guardarla da dentro, si fa più fatica a pensare che una zucca possa davvero diventare una carrozza.