Due colori, un cappello e una campana: appunti di un tifoso per mister Lucarelli

Claudio Spagnolo

Caro Lucarelli, ho letto che vorrebbe capir meglio le ragioni del disagio che – come Lei ha notato – attraversa un bel pezzo della tifoseria catanese. E m’è venuta voglia di farLe sentire, per un momento, la mia campana. È una campanella, intendiamoci. Che esprime solo un mio personale punto di vista, e non pretendo ne rappresenti altri. Ma, per quel che vale, proverò a suonarla un po’.

Faccio una necessaria premessa. Io ho sempre tifato per il Catania e non – tanto per dire – per la Juve. Il che significa che ci sono cose, nel calcio, che detesto cordialmente. Non mi piace chi non gioca pulito. Non mi piace chi si cuce orgogliosamente sulla maglia trofei conquistati con l’inganno. Non mi piace chi sguazza felice nel tanto sporco che c’è nel pallone. Di questo sporco la mia squadra, in quasi tutta la storia che ho potuto vivere, è sempre stata vittima. Subendo torti, ingiustizie, perfino arbitrari tentativi di cancellazione. Ma conservando a noi tifosi il privilegio di poter sbandierare felici i nostri colori. Perché sapevamo che essi rappresentavano dei valori. A prescindere dalla categoria in cui giocavamo.

Il giorno in cui, qualche anno fa, arrestarono per la prima volta Pulvirenti, io mi trovavo per caso a Milano. Era estate, il sole batteva e io giravo con in testa un cappello, ovviamente rossazzurro. Quando al telefono mi raggiunse la notizia delle combine di cui Pulvirenti era accusato, ho pensato, per prima cosa, al mio cappello. A come da quel momento ci avrebbero posato gli occhi i tifosi di tutte le altre squadre. All’ilare vendetta che avrebbe regalato ai troppi conoscenti juventini che, fino ad allora, avevo a buon diritto sfottuto. Non mi sono, tuttavia, tolto il cappello. Ho continuato a portarlo in testa, nell’afa vischiosa di Milano: ma ormai senza più la spensieratezza di chi canta, bensì con sul cuore il peso di chi sta cominciando a portare una croce.

Nei giorni successivi, come è noto, il signor Pulvirenti parlò con i giudici. E confessò di aver provato a comprare alcune partite. Poi parlò con i giornalisti per spiegare i motivi della sua azione. E provò a giustificarsi richiamando i fatti che anni prima avevano portato, dopo un derby con il Palermo, alla morte dell’ispettore Raciti. Ciò che mi colpì non fu il fatto in sé che si riaprisse quella pagina, una delle più dolorose nella storia della nostra città, che naturalmente non deve essere dimenticata. Bensì il fatto che la si usasse, quella pagina carica di sangue, per asciugare la macchia di una piccola vergogna. Per giustificare il tentativo di comprarsi qualche risultato. Per scaricare su altri colpe e peccati che erano solo del signor Pulvirenti.

Colpe che, tra l’altro, non cominciano e non finiscono con i Treni del gol. Ma risalgono ad almeno un anno prima. Quando il bastone del comando fu affidato al disastroso Pablo Cosentino, e alcune leve di esso furono messe in mano a Moggi junior e al suo entourage (quello da cui ci arrivò, per esempio, Delli Carri). Diverse voci – e il tempo avrebbe loro dato ragione – provarono a ripetere che, con quelle scelte, si stava facendo il male del Catania. Magari, se si fosse dato loro ascolto, oggi non saremmo finiti dove siamo. Viceversa si preferì ignorarle o – se per caso si trattasse di giornalisti – punirle con il bando da ogni intervista o conferenza stampa.

Già: perché, in questa società, è storicamente radicata una visione alquanto arcaica dell’informazione: una visione che si manifesta con il tener lontano e bollare come untore chiunque abbia il torto di cantare fuori dal coro, cercando invece quanto più possibile di circondarsi di yes men. Un modello fuori dal tempo e dalla storia. Forse fondato sulla convinzione che Catania sia, in fondo, una città minorenne, e destinata a restarlo in eterno. Un modello secondo cui l’informazione non è un diritto (di chi legge) e nemmeno un dovere (di chi scrive). Bensì una graziosa concessione di chi esercita l’impresa sportiva. Un modello che sembra ancora solidamente radicato nella proprietà. Come se l’ostinata sordità degli anni di Cosentino, e tutto quel che ne è seguito, non avesse insegnato nulla.

Vede, caro Lucarelli, quando io vado verso lo stadio passo da una via che è intitolata a Giuseppe Fava. Sono certo che Lei sappia chi è stato Fava e cosa significa il suo nome, non soltanto per Catania. E quanto sia importante, per la vita e per il futuro di questa città, fare ciò che è in nostro potere perché tutto ciò che vi accade venga raccontato da tante voci, non da una soltanto. Lei pensa che io stia divagando? Posso capirLa: stiamo parlando, in fondo, di una cosa futile come il calcio. Eppure non sto divagando. Perché secondo me il calcio non è un’isola sperduta in mezzo al mondo reale, un microcosmo separato con regole e leggi tutte sue. Il calcio è spesso, piuttosto, lo specchio della vita che gli cresce intorno. E penso che Catania possa esprimere di meglio – almeno culturalmente – della rozza pretesa che, della sua squadra come di tutto il resto, si scriva e si racconti solo sotto dettatura.

Non starò qui a dirLe, caro Lucarelli, delle trattative vere o presunte per cedere la società; o di quanto possa esserci di concreto nell’ipotesi che questa venga realmente ceduta, in ragione della delicata situazione finanziaria del gruppo che ne detiene le azioni. Tuttavia osservo alcuni fatti. Il presidente del Catania, il dottor Davide Franco, pochi giorni fa ha additato il signor Pulvirenti come uno degli artefici del risanamento della società. E il signor Pulvirenti, poche ore dopo, è tornato a concedere ai fotografi il suo sorriso a margine degli allenamenti della squadra. Se ci si chiede come mai una parte della città, pur amando visceralmente la sua squadra, si tiene a malincuore a una certa distanza da essa, non c’è bisogno di guardare lontano per trovare la risposta. La risposta è esattamente lì, dove tutti la vedono. E prospettare un futuro in cui il Catania sia ancora a lungo rappresentato da chi ne ha tradito i valori non può essere – che la cosa ci piaccia o meno – un modo efficace per ricucire uno strappo. Lo strappo con un pezzo di tifoseria che, in Pulvirenti, non può più accettare di riconoscersi.