Gonzalo Bergessio e il tifoso dimezzato: cronaca di un incubo in salsa rosanero

Claudio Spagnolo

Adesso che Gonzalo Bergessio ha firmato per il San Lorenzo (ex squadra sua e di Barrientos nonché squadra del cuore di papa Francesco) posso finalmente mettermi tranqiillo. Ma, fino a qualche giorno fa, mi sono sentito più o meno come Medardo, il visconte dimezzato di Calvino. Che come è noto fu squarciato da una palla di cannone e, da quel momento, non fu più uno ma due: il Medardo buono, che aiutava i poveri e i lebbrosi, e il Medardo cattivo, che infliggeva indistintamente la pena di morte a uomini e bestie. Solo che a dividermi esattamente a metà non era stata un’innocua palla di piombo. Ma la notizia, diffusasi la scorsa settimana, che Bergessio stava per accasarsi al Palermo. E dico Bergessio, non so se capite.

Quando, quell’orribile mercoledì, un amico caro ma crudele mi ha notificato l’accadutonon volevo crederci. In seguito, messo gradualmente di fronte al suo minaccioso concretizzarsi, ho dapprima scommesso che, nel ballottaggio tra Palermo e Chievo, Gonzalo avrebbe riconosciuto l’indiscussa superiorità del pandoro sulla mèusa. Poi però, quando ho sentito ripetere da tutte le parti che il mercenario stava trattando il proprio soldo con i rosavestiti capitani di ventura, che il fedifrago si era chiuso in albergo con i palermitani, che l’Iscariota stava contrattando con gli emissari di Zamparini l’equivalenza in euro dei trenta denari, ho sentito suonarmi all’orecchio quell’aria del Rigoletto che fa vendetta, tremenda vendetta. E infine, basito ed esausto, ho giurato a me stesso che mai più, mai più avrei voluto bene a un giocatore come ne avevo voluto a Bergessio.

E a quel punto il Medardo incazzato ha lasciato il posto all’altra metà di me, all’altro Semimedardo ancora intontito dalla cannonata. Il quale mi ha ricordato, suonando stavolta le note dell’affetto e della malinconia, ciò che ho sempre pensato di Bergessio, e degli attaccanti in generale. Ossia che esistono al mondo due categorie di attaccanti: quelli che trasformano in oro tutto ciò che toccano. E gli altri che l’oro non hanno bisogno di fabbricarlo, perché l’hanno già dentro, e hanno un modo tutto loro di farlo brillare.

Ai giocatori del primo tipo si applica, nel giudicarli, un criterio essenzialmente economico: il loro mestiere è segnare, il loro valore si stabilisce in base ai gol realizzati. E poco importa se non versano in campo che poche gocce di sudore. Perché, del resto, chieder loro la fatica, la corsa, la partecipazione al gioco, il lavoro altruistico al servizio dei compagni? Basta che si trovino al posto giusto al momento giusto, che sappiano muoversi rapidamente quando non hanno la palla per smarcarsi dai difensori, che riescano a infilzare come un tordo il portiere avversario e a raccogliere gli allori del gol e della vittoria. Si tratta, in genere, di attaccanti egoisti, il che nel calcio non è un difetto. A condizione che il loro egoismo sia supportato dall’altruismo dei loro compagni di squadra.

Ma poi ci sono attaccanti fatti di un’altra pasta. Uomini che versano litri e litri di sudore, che lavorano generosamente per la squadra, che sono sempre utili e preziosi anche se non sempre riescono a trovarsi lucidi e liberi sotto rete. Bisogna guardare con attenzione per accorgersi che, nel sudore che lasciano in campo, brilla sempre qualche briciola dell’oro che hanno dentro, da qualche parte vicino al cuore. E uno di questi attaccanti – così mi sussurrava, il Medardo dal cuore tenero – era proprio Gonzalo Bergessio.

E in effetti, di lui, stranamente, la mia metà nostalgica non ricorda solo i gol segnati. E nemmeno solo quelli ingiustamente annullati da occhiuti emissari del potere, come la rete che ci aveva fatto vincere sul campo la famosa sfida in casa contro la Juventus, capovolta nel risultato da un arbitro di nome Gervasoni e un guardalinee di nome Maggiani. Ricorda anche i gol fatti segnare agli altri. I palloni rubati con guizzi, con incursioni generose e rapaci, con mille impagabili sforzi per recuperarli e renderli giocabili quando sembravano ormai perduti. Se si dovesse raccontare Bergessio con un gol, se ne potrebbe scegliere uno brutto e quasi ridicolo, e che oltretutto non fu segnato da lui. E precisamente questo, realizzato da Seymour durante un Catania-Atalanta dell’aprile 2012.

Sembra proprio di assistere alle comiche: con il pallone che si muove attraverso l’area di rigore con la razionalità di una palla pazza, con il portiere atalantino Consigli che va per allontanarlo con un pugno e invece mette ko un suo difensore. Ma questo gol dice perfettamente che attaccante era Gonzalo Bergessio: uno che si fiondava dove aveva già teso le mani il portiere avversario, che riusciva a metterlo in confusione e sfilargli la palla dai guantoni senza tuttavia commettere fallo; e sapeva mettersi da parte, al momento di firmare il gol, permettendo ai compagni meglio piazzati di far ripartire l’azione, di approfittare del panico in cui lui aveva gettato la difesa avversaria. Come sanno fare solo quei giocatori che non dimenticano mai, nemmeno per un attimo, che il gioco del calcio è un gioco di squadra.

Questo mi diceva, il mezzo Medardo dal cuore gentile. Mentre l’altra metà incazzata augurava a Bergessio di conseguire, in rosanero, la stessa gloriosa fortuna toccata in passato a un Caserta o a uno Zenga. E mentre la metà conciliante cercava di placarmi ricordando che i giocatori sono professionisti e non stanno a guardare, come noi, queste cose di maglie e di sentimenti; e  che, fino a qualche settimana fa, Gonzalo era costretto ad allenarsi con una squadra di C argentina; e che dunque il Palermo rappresentava per lui un’onesta possibilità di tornare nel calcio che conta qualcosa; mentre cercava, insomma, di farmi venire a patti con la cruda realtà, ecco che quest’ultima si è dissolta come si dissolvono gli incubi, quando un raggio di sole ci fa aprire gli occhi su un mondo migliore di quello che abbiamo sognato. Ed ecco che ho letto, a firma di Gonzalo, le parole che avrei voluto leggere: «Non sono andato al Palermo perché non ho voluto io».

Parole che la ragione, sarò sincero, guarda con fredda diffidenza. Ma che sarebbe bello poter credere vere. Perché è sempre bello illudersi che, nei giocatori, ci sia almeno una traccia dell’attaccamento che noi tifosi proviamo per le maglie e per i colori. E perché sarebbe bello poter credere che l’oro di Bergessio sia rimasto ancora lì, nascosto ma intatto, da qualche parte vicino al cuore.