Pisseri e gli altri, professione portiere: com’è difficile a Catania la normalità

Claudio Spagnolo

Ha voglia, Pietro Lo Monaco, a dire che non bisogna mettere voti troppo alti a Pisseri, e che in fondo abbiamo un portiere normale, bravo sì, ma normale. Ha voglia a dirlo, anche se in fondo è vero. Perché un portiere altro non deve fare, di mestiere, che parare tutto quello che si può parare. E perché, a far sembrare speciale la normalità di Pisseri, è semmai l’anomalo torpore che buona parte dei suoi compagni manifestano in campo con inspiegabile regolarità: più o meno una partita sì e una partita no, e cioè – salvo rarissime eccezioni – ogni volta che giocano lontano dal Massimino.

E poi, scusate, vi par poco un portiere normale? Pensate solo all’anno scorso. Per interminabili mesi abbiamo affidato la guardiania della nostra porta a tale Elia Bastianoni, che a giudicare dalla presa, avrebbe potuto fare da testimonial pubblicitario a qualche ditta di saponette. Per nostra fortuna, poi, il secondo di Bastianoni, Luca Liverani, si rivelò complessivamente meglio del titolare. Ma nella memoria di quella stagione restano scritte, più che le parate di Liverani, appunto le papere di Bastianoni. Come quella che potete qui vedere, immortalata nel dicembre scorso sul campo del Melfi.

Due anni fa, in serie B, abbiamo per un po’ di tempo respirato grazie a qualche comparsa, tra i nostri pali, di Pietro Terracciano. Un portiere anche lui dignitoso e normale: ma che, forse proprio per questo, in rossazzurro avrà messo insieme una decina di presenze in due stagioni. Ma con Terracciano – lo ricorderete – si alternava Alberto Frison. Che era arrivato a Catania da Vicenza, dove si diceva addirittura che fosse stato il miglior portiere della serie B. Ora, che questa sia stata una leggenda, che Frison abbia solo avuto sfortuna, che si sia imbrocchito proprio a Catania nell’anno precedente, sotto le cure del professor Ventrone, un fatto è certo: la parabola catanese di Frison lo ha portato dal rango di promessa a quello di panchinaro nelle squadre che l’hanno in seguito preso con sé. Fino a far di lui ciò che oggi è: un portiere svincolato, in cerca di una squadra che voglia ancora affidargli le chiavi della porta. E ricordato anche lui, suo malgrado, per qualche papera spettacolosa. Come questa firmata, nel nostro ultimo anno di serie A, sul campo della Roma.

E dire che molti di noi – me compreso, lo ammetto – credevano in Frison ben più che in Mariano Andujar. Del quale, benché nel giro nazionale argentina, tutto si può dire fuorché che sia stato un portiere normale. Fisicamente Andujar era, nel senso migliore del termine, una bestia: alto, possente e, quando gli andava, con i riflessi pronti. Ma era inspiegabilmente capace di addormentarsi nel bel mezzo della partita firmando cappellate memorabili. Le papere di Andujar nascevano spesso dall’insufficienza nello scatto: egli tendeva a raggiungere il pallone con movimento scomposto, affannoso, con gesto tecnico abbozzato ma spesso non portato a compimento. Anziché accogliere la sfera nel cavo delle sue capienti manone, non era raro che la colpisse appena con la punta delle dita, che non riuscisse a trattenerla vicino al corpo, che la indirizzasse magari sui piedi del centravanti avversario.

Ma la papera di Andujar che mai perdonerò fu quella di una partita di cinque anni fa, che regalò alla Juventus il gol del pareggio al Massimino, e ai suoi tifosi di anagrafe catanese l’imperdonabile privilegio di esultare per un gol segnato alla squadra della propria città. Vedendosi arrivare da fuori area un melenso tiro di Krasic il portiere rossazzurro, anziché distendersi sul fianco, come avrebbe fare con tutta comodità, si inginocchiò frontalmente e cercò poi di schiaffeggiare la sfera con la mano destra. Ma il movimento insufficiente e tardivo del corpo (movimento che, con il lessico della disciplina olimpica dei tuffi, potremmo forse definire «scarso») gli fece assumere una posizione goffa e innaturale, del tutto inadatta a fermare la palla. Andujar, insomma, sbagliava spesso perché non si tuffava abbastanza o non si tuffava in tempo. E questo, specie se lo fai giocando contro la Juventus, non è proprio possibile accettarlo.

Nel tormentato rapporto di Andujar col Catania – fatto di partenze, di ritorni, di lunghe incomprensioni col pubblico – c’è stato spazio anche per il suo connazionale Juan Pablo Carrizo. Il quale firmò, è vero, alcune partite maiuscole. Ma ci fece conoscere anche un genere di papera frutto dell’eccesso opposto a quello di Andujar. Gli errori di Carrizo non nascevano da tuffi «scarsi», bensì da movimenti che la stessa terminologia olimpica definirebbe piuttosto «abbondanti»: Carrizo si tuffava troppo, o troppo presto. Se il tiro era abbastanza centrale, lui si buttava  sul fianco con tanto zelo, con tanto slancio, da oltrepassare abbondantemente il punto di impatto col pallone, che con uno scatto meno rapido gli sarebbe comodamente piovuto in mano. Di fronte a un giocatore che stava per tirare in porta, l’argentino – ansioso di non giungere in ritardo all’appuntamento – cominciava  a muoversi abbondantemente prima che il tiro fosse partito, lasciando dunque scoperto il palo opposto a quello da lui scelto. Nella prima sottospecie di papera si inquadra per esempio il gol di Forlan in Inter-Catania, che diede inizio alla rimonta nerazzurra in una gara che i nostri avevano ormai in tasca. Nella seconda rientra, ancora una volta, un errore imperdonabile: perché fu commesso sul campo del Palermo, dove il Catania stava vincendo, e regalò il gol del pareggio a Miccoli.

Ma ne abbiamo avuti altri, se torniamo indietro con la memoria, di portieri che tutto erano fuorché normali. Come Ciro Polito che, alle sue prime apparizioni, sembrava davvero un fenomeno: si avventava su ogni pallone con presa ferrea, sfidava la gravità  uscendo in acrobazia, fermava con ogni parte del corpo gli avversari lanciati a rete. Poi, quando qualcuno proclamò ad alta voce che era tanto forte che perfino il Milan si era interessato a lui, un maligno incantesimo lo trasformò. La sua rispettabile statura di centoottantaquattro centimetri sembrò all’improvviso ridursi alle modestissime proporzioni di un metro e una banana. Qualche invidioso gli spalmò di Bostik le suole delle scarpe. E da quel momento Polito riuscì ad agguantare il pallone soltanto quando c’era da raccoglierlo dalla rete.

E prima di Polito? Pensate a Pantanelli. Lo avevamo avuto per due anni in B, ed era stato forse il miglior portiere del campionato. La serie A sarebbe stata l’occasione per coronare, in età non più verde, una carriera nel complesso dignitosa. Qualche vittoria del girone d’andata portò indubbiamente la sua firma. Poi, non si sa bene perché, questo bravo portiere subì un’imprevedibile metamorfosi. Svegliandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme bradipo. Le sue mani dotate di tre sole dita si rivelarono incapaci di trattenere qualsiasi pallone; le sue gambe cominciarono a divaricarsi, fino ad assumere la forma di un tunnel. E nel primo anno di serie A – concluso con una salvezza all’ultima giornata – ci obbligò a ingollare una sfilza di boiate leggendarie, come per esempio questa.

I più attenti si saranno accorti che, in questa rassegna retrospettiva dei portieri rossazzurri, ho saltato, tra quelli importanti, un solo nome: quello di Albano Bizarri. Si tratta in effetti di uno dei pochi portieri normali che abbiamo avuto la fortuna di veder giocare con la nostra maglia in questi anni. E sarà per questo che lo ricordiamo tutti con affetto, e lo seguiamo con simpatia quando ci compare sul teleschermo, oggi, in qualche partita della massima serie. Bizzarri, ovvero la normalità che diventa eccezione. Come oggi, nella dimensione ridotta della Lega Pro, capita a Pisseri, l’unico rossazzurro a salvarsi domenica nel disastro di Francavilla.

Una normalità eccezionale, una normalità che da sola, però, non sempre basta a salvarci. A pensarci bene, è una cosa che a Catania capita spesso: e non capita, a dire il vero, soltanto nel calcio.