Lettera strana alla Befana: «Quest’anno per favore portami tanto carbone»

Claudio Spagnolo

Magari non c’entra molto col calcio, ma c’è questa foto recente del sindaco Bianco che un po’ fa riflettere. Il primo cittadino quasi uscente, a ridosso di una campagna elettorale da cui vorrebbe uscire rientrante, seduto al tavolo dell’editore de La Sicilia, Mario Ciancio. Il quale non è solo – da un tempo che non so più calcolare – il padrone indisturbato della carta stampata cittadina, ma è anche ufficialmente un imputato per un reato su cui non c’è tanto da scherzare: addirittura associazione mafiosa. Sia pur rimanendo innocente fino a sentenza definitiva, sia pure a titolo di concorso esterno.

Comincia un anno, e il fatto che il pallone si fermi non ci impedisce di continuare a occuparcene. Chiedendoci, certo, se a Lecce riscatteremo la sconfitta con la Casertana o se Lodi ce la farà a rientrare per tempo per la sfida che potrebbe decidere il nostro campionato. Ma a volte – a me capita così – riflettendo anche su ciò che il pallone vuol dire per noi. Su cosa significa davvero questo inseguire il sogno di una sfera di cuoio che rotola su un prato verde. O sul motivo per cui ci sentiamo attaccati sulla pelle, si può dire dalla nascita, i colori d’una maglia. Una maglia che i giocatori indossano solo per mestiere e finché non scadrà il contratto. E noi invece non possiamo fare a meno d’indossare tutti i giorni della nostra vita.

Penso ci sia di mezzo il legame che ognuno di noi ha, vivo, con la propria città. Un legame che non è mai semplice, che sarebbe banale ridurre, per dire, all’affetto di un bimbo per la propria madre. Un legame che Giuseppe Fava – giornalista la cui vita ha incrociato la mafia, ma ostinatamente e fino all’ultimo dalla parte opposta – raccontava trentotto anni fa con queste parole: «Io amo questa città con un rapporto sentimentale preciso: quello che può avere un uomo che si è innamorato perdutamente di una puttana, e non può farci niente, è volgare, sporca, traditrice, si concede per denaro a chicchessia, è oscena, menzognera, volgare, prepotente, e però è anche ridente, allegra, violenta, conosce tutti i trucchi e i vizi dell’amore e glieli fa assaporare, poi scappa subito via con un altro; egli dovrebbe prenderla mille volte a calci in faccia, sputarle addosso “al diavolo, zoccola!”, ma il solo pensiero di abbandonarla gli riempie l’animo di oscurità».

A chi non è successo, di sentirsi ferocemente tradito dalla propria città? O – se è lecito comparare tra loro le due cose – di sentirsi qualche volta tradito anche dalla propria squadra, o almeno da chi la rappresentava, da chi non era all’altezza dei valori che essa per noi incarnava, da chi ne ha macchiato la storia sportiva? E a chi non è successo, però, di continuare ad amarla profondamente – la squadra, oppure la città – pur sentendosi lacerare ogni giorno dalla ferita del tradimento? È un po’ così che, in questo inizio d’anno a palla ferma, aspettiamo adesso che il calcio ricominci. Da un lato con la speranza di un riscatto che ci lasci alle spalle l’infamia recente della serie C. E dall’altro col timore che nulla sia destinato a cambiare, che tutte le occasioni per risalire si perdano come è fin qui avvenuto. Non solo all’ultima gara dell’anno, ma quasi a ogni piega del campionato che sembrasse prometterci un aggancio alla vetta.

Magari non c’entra col calcio, quella foto lì, ma non mi piace per niente. Perché ritrae una Catania immutabile, sclerotizzata nei riti del suo potere, incapace di voltarne le pagine per scriverne di nuove. Ed è per questo che quest’anno, cara Befana, mi piacerebbe ricevere da te tanto carbone. Per passarlo su quella foto fino a cancellarne i contorni. Per avere davanti una pagina nuova, lucida come la lastra di una lavagna, su cui poter disegnare qualcosa di nuovo. Per potermi augurare, per il nuovo anno, non solo un Catania più forte; ma anche una Catania migliore di quella di un passato che si ostina a non passare.