Campionato, meno dodici giornate: ma il Catania ha ancora bisogno di eroi

Fonte: calciocatania.it
Claudio Spagnolo

Ogni volta che vedo il pallone capitare tra i piedi di Matteo Pisseri, provo un’ingiustificata inquietudine. Forse perché un portiere costretto a giocare la palla con i piedi – siano pure piedi beneducati come quelli di Pisseri –, affrontando i pericoli di un dribbling o di un passaggio maldestro, fa venir meno, di per sé, quel senso di protezione che ti dà invece un pallone stretto saldamente tra le braccia e il petto. Forse perché, avendo avuto fin qui poche occasioni di dir bene degli altri giocatori rossazzurri, ho sempre paura che un destino crudele mi spenga in bocca le parole di elogio per l’unico – o almeno uno dei pochi – di cui ciecamente mi fido. O forse perché, da alcuni anni a questa parte, il concetto di portiere del Catania evoca sentimenti di tranquillità e di sicurezza più o meno simili a quelli provati dai risparmiatori che si sono affidati a Banca Etruria. Non so.

Eppure, una volta non era così. Nei ricordi più lontani della mia non breve vita di tifoso, l’immagine del portiere del Catania era sempre legata a un’idea di protezione assoluta. Una protezione che avrei detto perfino materna, se quelle mamme non avessero spesso portato dei solenni baffoni: come quelli di Zeliko Petrovic, il portiere slavo del Catania della mia prima infanzia. O quelli di Roberto Sorrentino, il numero uno del Catania che vidi per la prima volta scalare dalla serie C alla serie A, regalandoci all’Olimpico le gioie di una giornata che, per chi c’era, non sarà mai del tutto passata.

Poi è successo qualcosa. Forse perché molti anni fa il regolamento del calcio cambiò, vietando al portiere di raccogliere con le mani il pallone retropassato da un compagno. E dunque esponendolo come tutti gli altri – con indubbio guadagno per lo spettacolo – all’alea di dover giocare la palla a terra. O forse perché, nel frattempo, sono semplicemente invecchiato io. E i miei portieri hanno inevitabilmente perso quelle connotazioni materne per apparirmi sempre di più per quello che erano: giovanotti a volte bravini, a volte scarsetti, ma comunque sempre esposti alla fragilità dell’errore. Al rischio di scivolare dal piedistallo su cui ho sempre desiderato collocarli. O di non salirci proprio, su quel piedistallo, rassegnandosi a diventare il bersaglio di mugugni e contestazioni.

Ne abbiamo parlato tante volte: degli Andujar, dei Frison, del Pantanelli seconda maniera (non quello che ci accompagnò in serie A, ma quello che per poco non ci fece tornare subito in B), giù giù fino allo sventurato Bastianoni. Ma sabato, vedendo scorrere le immagini della sfida col Taranto – la prima al Massimino da quella che nel 2002 ci regalò il ritorno in serie B – ho ripensato a Gennaro Iezzo: il portiere alle cui mani affidammo appunto una parte importante di quella promozione.

Un portiere spesso contestato, Iezzo: processato per le sue insicurezze e forse – alla luce dell’onesta carriera che alla fin fine ha fatto – un po’ sottovalutato dalla tifoseria rossazzurra. Un portiere del quale però mi è rimasta nella mente soprattutto un’immagine: quella di un pallone afferrato uscendo su calcio d’angolo, in una presa acrobatica infinitamente bella benché non difficile, nei minuti di recupero dello spareggio di ritorno col Taranto. Un pallone che, fermo tra le mani di Iezzo, ci regalò appunto quella sensazione di sicurezza e protezione che da tanti anni ci mancava. Perché quella presa significava che la palla, per quella stagione, non sarebbe mai più finita nella nostra porta. E quella cosa rotonda che Iezzo stringeva tra le mani non era solo una palla, ma era proprio, finalmente, il ritorno in serie B.

Non era un eroe dell’estrema difesa, Iezzo: era solo un discreto portiere che, quando la squadra giocava bene, dimenticava la paura e giocava bene pure lui. Non era un eroe, e del resto in una squadra che vince un campionato in genere il portiere non deve fare tutto lui. Come finora è spesso successo al Catania di oggi: che mille volte ha affidato a Pisseri l’incarico di tirarlo fuori dai pasticci in cui l’insipienza altrui l’aveva cacciato.

Forse è per questo che non riesco a star tranquillo, quando vedo Pisseri avventurarsi in un dribbling o un passaggio difficile. E sono costretto a pregarlo mentalmente, per favore, di non deludermi almeno lui.  Perché sento che il Catania di quest’anno gli deve troppo. Perché, se ancora qualcuno coltiva la speranza che la presente stagione possa avere un senso, ciò si deve in buona parte all’onesto eroismo – in senso sportivo, s’intende – di questo ragazzo. Costretto perfino a salvare il risultato contro il modesto Taranto, in attesa che i suoi compagni – a dodici giornate dalla fine – facciano qualcosa per evitare che si debba sempre aver bisogno di eroi.