Castellammare, se il calcio somiglia al tennis: il delirio di impotenza del Catania

Claudio Spagnolo

Un luogo comune dello sfottò calcistico – quello che si infligge agli sconfitti, ogni volta che alla sconfitta si sommi il disonore – consiste nel raccontare il calcio attraverso il tennis. Che di solito viene evocato quando il campo produce punteggi un po’ troppo rotondi, quando i gol si succedono con la regolarità dei giochi di cui è fatto un set. Che la Juve Stabia battesse il Catania con un punteggio tennistico non è successo, ma poco c’è mancato. E in ogni caso, il quattro a zero subito dalla squadra di Rigoli basta e avanza per autorizzare ai nostri danni le più crudeli prese in giro.

Di tennistico però, a Castellammare, c’è stato anche altro. Perché la manifesta inferiorità mostrata dai rossazzurri giovedì pomeriggio è stata accentuata ancora di più dal fattore campo: inteso stavolta non come il generico e impalpabile vantaggio di cui la squadra di casa gode per il fatto stesso di giocare in casa; bensì come l’influenza, in questo caso ben concreta e visibile, che l’assetto del terreno di gara ha avuto sullo svolgersi del gioco.

Nel tennis questo è normale: ci sono i campi in terra battuta come quelli italiani, che rallentano il rimbalzo della palla e permettono ai giocatori di raggiungerla scivolando sul terreno; e sono campi che favoriscono i giocatori meditabondi, che attendono gli avversari da dietro la linea di fondo. Oppure ci sono i campi in erba come Wilmbledon, in cui il rimbalzo più basso e veloce della pallina obbliga a un gioco d’attacco, fatto di colpi al volo e di aggressività sotto rete. Mentre le moquette e i terreni sintetici che negli ultimi anni si sono moltiplicati offrono rimbalzi di ogni tipo, di volta in volta più favorevoli a strategie di rapida offesa o di lento logoramento.

Il campo di calcio della Juve Stabia, un campo d’erba artificiale, sembra di quelli studiati apposta per imprimere alla palla traiettorie rapidissime e precise. E i giocatori di casa ci si muovevano, giustamente, come se fossero a casa loro. Appena si trovavano la sfera tra i piedi se ne liberavano facendola viaggiare quasi sempre a pelo d’erba, a ritmo indiavolato, tagliando fuori i rossazzurri e costringendoli, nell’umiliante corrida, a far la parte del torello. Già non è bello vedere una squadra che, come il Catania di ieri, giocava da far pietà a prescindere dal campo. Ma vederla così spaesata, come se stesse calpestando la superficie di un altro pianeta, ha reso la giornata ancora più penosa.

Senonché il tennis ha, rispetto al calcio, alcuni indubbi vantaggi. E non solo perché – cosa che può succedere, benché di rado – finché l’ultima pallina non ha toccato terra per due volte il risultato può essere ribaltato da chi sta perdendo, anche di molto. Ma anche perché, perlomeno, lo sconfitto ha la consolazione di tornarsene a casa subito nel caso in cui le cose si mettano davvero male. Una partita di tennis senza storia dura il tempo necessario perché il vincitore si aggiudichi i due o tre set previsti dal programma. Una partita di calcio dura sempre novanta minuti, e qualche volta non passano mai.

Come giovedì. Con la conseguenza che, acquisito il risultato quasi subito, il tempo rimanente è servito solo a esasperare la frustrazione dei rossazzurri. E con la conseguenza che l’arbitro – peraltro scarsissimo – ha avuto il tempo di infliggerci due espulsioni e diverse ammonizioni, regalandoci un totale di quattro squalificati per la prossima sfida. L’ultima dell’anno, in casa, contro l’Andria.

Ora, il male non è perdere con la Juve Stabia. Il male è andare a Castellammare proclamando di volere e poter vincere e poi fare questa figura. Il male è soffrire di questa sensazione di impotenza che, troppo spesso – nel divario crudele tra ambizioni e realtà – ha afferrato il Catania quando giocava lontano da casa. Un’impotenza che possiamo anche sintetizzare nella prestazione del povero Calil, attaccante un tempo prolifico ma oggi divorziato dal gol e della porta. Ma che non si spiega né con Calil, né con il campo sintetico, né con questo o quell’altro degli errori strategici che Rigoli ha pur commesso. Un’impotenza che deve avere le sue radici da qualche parte nella testa dei giocatori. E che difficilmente scomparirà, se queste radici non saranno estirpate.