Il novembre del Calcio Catania e la nostalgia di una festa dimenticata

Claudio Spagnolo

Quand’ero piccolo aspettavo con trepidazione la festa dei morti. Che da noi in Sicilia – lo dico a beneficio di chi non lo ricordasse, o per età o per aver magari trascorso l’infanzia in luoghi meno magici – era una vera e propria festa. Festa che solo più tardi, con dolore, ho scoperto essersi estinta (paradossalmente dimostrando che neanche l’esser già morti può garantirci dal rischio di morire). Morta e seppellita, la festa dico, da quel corteggio celtico di zucche e stregonerie che tanto sembra rallegrare i ragazzi d’oggi, e fa sentire così vecchi quelli come me.

Peccato, perché era una festa bella. Nella quale gli antenati da poco scomparsi, o quelli andati via prima che noi facessimo in tempo a imprimercene i volti nella memoria, venivano a trovarci di notte, cercavano per la casa ben nota un angolo nascosto o dimenticato, e lì depositavano il regalo dei nostri sogni: una rumorosa astronave dalle luci multicolori, una sofisticata trottola che esprimeva grossomodo il medesimo stato dell’arte tecnologica, una scatola di Meccano, uno scimpanzé di plastica che passava il suo tempo a fumare sigarette di cera — giuro di aver ricevuto anche questo, in regalo dai morti, un anno che la loro festa coincise con i miei non troppo infrequenti malanni di stagione: ed è forse a questa casuale associazione tra fumo e malanni che devo il fatto di non essere mai divenuto, benché tifoso dai nervi fragili, un precoce e accanito tabagista.

Poco si faceva caso, noi bambini, alla mestizia che in quei giorni velava i volti dei nostri genitori. Ai quali si delegava per intero il carico del ricordo e del rimpianto per le perdite antiche e recenti. Non che non la percepissimo per nulla, la mestizia: ma ci arrivava addolcita – oltre che dal trionfo di dolciumi coi quali tempravamo le nostre dentature e i nostri apparati digerenti – dall’indubbio sense of humour che i nostri morti manifestavano nel nasconderci nei posti più impensati i regali che ci sarebbe toccato scovare.

Così, anche oggi che purtroppo questa festa non c’è più, mi chiedo a volte che giocattolo mi abbiano portato quest’anno i morti, e dove l’abbiano nascosto. Trovandomi a sperare, non so quanto ragionevolmente, che possano magari averlo nascosto sotto le apparenze più banali. Magari anche sotto quella d’una vittoria fin troppo facile, come è stato lo schiacciante 4-1 con cui sabato il Catania ha rimandato a casa l’insufficiente Bisceglie.

Sarebbe bello se, sollevando il sottile velo di carta del risultato, si potesse scoprire che, lì sotto, il giocattolo c’è davvero. Il giocattolo, intendo, di una squadra che funziona davvero non come un insieme di solisti, ma per l’appunto come una squadra. Di un’onesta orchestra del pallone che sappia suonare lo spartito giusto, anche se quel giorno il direttore ha il braccio fuori uso. Una squadra, cioè un collettivo. Quel che sabato è parso di vedere, per esempio, quando Russotto ha regalato a Curiale una palla che il suo innato narcisismo lo avrebbe forse in altri momenti spinto a calciare direttamente in porta. O quando Biagianti ha preso posto in regia e stavolta – lui che è certo più bravo a spezzare il gioco degli avversari che a inventare trame d’attacco – si è messo a costruire con ingegno quello della sua squadra, senza far troppo rimpiangere la mancanza di Lodi.

Un simile giocattolo, se davvero fosse lì, nascosto sotto questa facile vittoria, quello sì che sarebbe un bel regalo. Ma voglio ancora esserne certo, anche perché i morti sono tanto cari ma anche a volte un po’ burloni. Perciò non mi faccio bastare il fatto che Lucarelli, quando spiega la sua filosofia di gioco, dà l’impressione di pensare proprio a questo. E soprattutto non mi faccio bastare una vittoria col Bisceglie, specie dopo i due passi falsi che tutti ricordiamo. E aspetto ancora a sventolare il mio regalo. Aspetto qualche altra partita per capire se, sotto quel sottile velo di carta, c’è davvero quel Catania che mi piacerebbe fosse il mio.