Catania: 70 anni, crescere senza invecchiare. L’attesa, amorevole rito rossazzurro

Claudio Spagnolo

Ricordo un mazzo di carte siciliane e tanto, troppo sole. Era sicuramente la tribuna B, la partita quella volta era Catania-Taranto. Ma avrebbe potuto essere una di tante altre partite. Intuivamo confusamente che, di lì a qualche ora, Michele Fini avrebbe calciato dal limite un missile destinato a infilarsi in porta, e che quel gol ci avrebbe portato ad affrontare da vincitori lo spareggio di ritorno. Sentivamo in bocca il gusto della promozione in serie B, avevamo assaporato quella parola tutto l’anno, pronunciandola ogni volta con voce un po’ più forte. Ma intanto giocavamo a carte, in mezzo all’estate impietosa che si scioglieva sul Massimino. Avevamo davanti diverse ore di attesa, quel pomeriggio: ma c’eravamo abituati. Perché se c’è una cosa che il tifoso rossazzurro ha imparato, fin dal primo giorno in cui il padre l’ha preso per mano per accompagnarlo allo stadio, questa cosa, checché se ne dica, è precisamente l’attesa.

L’anno scorso ce l’hanno raccontato diversi calciatori, chiamati, in occasione del settantesimo compleanno del Calcio Catania, a ricordare i loro anni trascorsi sotto l’Etna. Quello stadio pieno con ore e ore di anticipo, quella passione infinita e sempre uguale, perfino se declinata sui campi dei più infimi campionati: una passione che non si trova facilmente nemmeno in tanti stadi di serie A. Quel che nessun giocatore transitato da qui può ricordare, però, è che noi non siamo abituati ad aspettare soltanto, il giorno della partita, il fischio d’inizio dell’arbitro. Ma che gran parte della nostra vita di tifosi s’è spesa così, ad accudire la nostra squadra nei momenti di difficoltà, ad accompagnarla sui campi più improbabili della provincia italiana, a porgerle la mano perché si tirasse fuori dal pantano in cui era scivolata. Ad aspettarla. Aspettarla e sostenerla come si sostiene un figlio che potrebbe non farcela, senza di noi, a trovare il suo posto nel mondo.

E ne ha subite, di ingiustizie, questo bambino che da poco ha compiuto settant’anni. Punizioni decise da presidi dichiaratamente ostili, tra le quali quella di espellerlo da tutte le scuole del regno. Le angherie di bulletti in giacchetta nera che gli hanno rubato vittorie sacrosante, come a scuola avrebbero rubato la merenda. Le violenze di un professorone argentino che, con l’avallo di chi non ha fatto nulla per fermarlo, lo hanno quasi portato al suicidio. Non possiamo certo negare che, in mezzo a tante ingiustizie, questo figlio abbia sbagliato. Che frequentando pessime compagnie, anziché restare fedele a se stesso e a chi lo ama, abbia ostinatamente cercato di assomigliare ai più ricchi e potenti. A quelli che aspettano la partita giocando con gli assegni invece che con le carte. Non possiamo negarlo, anche se sarebbe più comodo far finta di nulla. Non possiamo però nemmeno dimenticare che sempre d’un figlio si tratta.

E ci vien voglia ancora di tornare ad abbracciarlo, quel figlio, come facevamo un tempo. Anche se magari oggi non gli parliamo e, quando passa per casa, facciamo lo sforzo di ignorarlo. Anche se disapproviamo quel che ha combinato, le compagnie che ha frequentato e magari frequenta ancora. A volte ci viene anche il dubbio – che in qualche caso è più di un dubbio – che la punizione che oggi sconta, benché meritata, abbia un risvolto ingiusto: perché è stato punito più lui che le persone senza le quali, certo, non avrebbe potuto combinare tutti quei guai. Ci rimane l’istinto di abbracciarlo, anche se è stato duro scoprire che gli errori che sempre abbiamo rimproverato agli altri li ha commessi anche lui; e se è difficile accettare che, immergendosi nella prosa del mondo adulto, questo figlio non sia stato sempre fedele all’immagine ideale che ci eravamo costruiti di lui. Qualcuno di noi non ce la fa proprio a non sorridergli, nonostante tutto.

Qualcun altro continua a ostentare freddezza. Ma tutti, in ogni caso, aspettiamo: che si tiri fuori dai guai, che torni a meritare l’abbraccio che facciamo tanta fatica a non dargli. Anche per questo – in quest’ultimo sgocciolo di feste; in questo inizio di gennaio in cui il campionato (quello che per noi conta) si ferma, e in cui del calcio ci rimane solo l’attesa – facciamo di cuore gli auguri a questo figlio chiamato Calcio Catania. Sperando che, fatti fino in fondo i conti con una giustizia che sia giusta, torni a essere per noi quel che sempre è stato. Che torni a farci sentire felici di stargli accanto, e orgogliosi di lui. Come eravamo in passato, come vorremmo essere anche domani. Lo cominciamo così, quest’anno che deve ancora venire: aspettando che cambi qualcosa. Che il nostro Catania torni a crescere, a diventare grande per poter festeggiare chissà quanti altri settantesimi compleanni. Ma che torni a crescere ritrovando finalmente se stesso. Che poi è l’unico modo per crescere senza mai diventar vecchi.