Catania-Taranto: 2002-2017. I fischi al posto del boato

Marco Di Mauro

C’è lo stesso sole di quel due giugno 2002. Riscalda meno, ma i vestiti più spessi di questo febbraio fanno sentire addosso un calore molto simile. Chi ha vissuto quel Catania-Taranto, ieri – prima volta che la sfida si rinnova al Massimino – non può che trovare, anche nelle piccole cose, delle affinità che riportano la memoria a quella sfida rimasta storica. Superata la suggestione, la realtà è però ben diversa da allora, e alla fine il risultato non è una vittoria ma un pareggio salutato dai fischi e dai mugugni di gran parte della tifoseria etnea.

La categoria è la stessa. Lo stadio è lo stesso, a parte qualche cambiamento nel look. La partecipazione del pubblico, quella no, è cambiata. Non ci sono più i 25mila catanesi che riempirono ogni posto libero in quella finale d’andata dei playoff, che avrebbe portato al Catania – dopo il pareggio allo Iacovone – la promozione in serie B attesa per oltre vent’anni. Questo è il dato che, per primo, rompe l’illusione di rivivere uno momenti più esaltanti della storia moderna del Calcio Catania. Una sfida che fu l’inizio dell’ascesa poi rapida verso i sette esaltanti anni di serie A.

Al Massimino, pieno di vuoti in tutti i settori, sono non più di settemila i presenti. Il Catania di oggi lotta per guadagnare una posizione favorevole in prospettiva playoff, ma deve pure guardarsi alle spalle dalle inseguitrici. La nuova dirigenza, dopo lo scandalo Treni del gol e il rischio fallimento, è riuscita a dare una prospettiva di rilancio. Speranza che però è ancora subordinata sia agli aspetti sportivi di una più che competitiva Lega Pro, sia al piano di ristrutturazione del debito ancora allo studio delle banche, e dal quale dipende l’intero futuro delle aziende di Antonino Pulvirenti.

Anche questa squadra, tuttavia, mira decisa alla serie B e per riuscirci ha deciso di cambiare guida tecnica. Pietro Vierchowod fu congedato a due giornate dalla fine della stagione. Mario Petrone subentra a Pino Rigoli quando ne mancano tredici. Alla sua prima panchina al Massimino, il tecnico napoletano è più che movimentato. Pantaloni blu della tuta, quelli col logo del Catania, felpa grigia e scarpe da tennis. Segue la partita in piedi, gironzolando nervoso per la sua area tecnica quando non sbraita indicazioni sbracciandosi verso questo o quell’altro dei suoi calciatori.

Almeno un po’ del carisma di Ciccio Graziani pare averlo, Petrone. E ne serve tanto al Catania per affrontare un avversario che, come allora, ha come prerogativa quella di difendersi e ripartire. Di nuovo c’è la maglia degli ospiti, non più bianca ma gialla. Il Catania, invece, è sempre rossazzurro. I nomi sono tutti diversi. Al posto di Amoruso c’è Pozzebon, al posto di Iezzo c’è Pisseri, al posto di capitan Baronchelli c’è Biagianti. al posto del temibile Riganò c’è Magnaghi. Sugli spalti, invece, molte facce sono le stesse. Solo un po’ cambiate dal tempo e spesso nello stesso posto di allora.

Pure i cori delle due curve, spesso, somigliano a quelli del 2002. La rivalità col Taranto è sempre viva, e rende la sfida del Massimino sentita poco meno di un derby. Ma l’assenza dei gruppi organizzati pugliesi, dovuto al rifiuto di aderire alla tessera del tifoso, lascia quasi vuoto il settore ospiti e svuota di senso una partita che nel 2002 fu attesa e giocata anche e soprattutto dalle due tifoserie. Al posto dei circa trecento tifosi tarantini c’è una famigliola che ha, come abitudine, quella di seguire la formazione rossoblu in giro per tutta l’Italia.

Non arriva il gol di Fini al secondo tempo, e non solo perché il Catania attacca verso la porta opposta. L’occasione non manca, a Pozzebon, quando la partita entra nei suoi ultimi cinque minuti. Maurantonio, però, più con l’istinto che con la tecnica, devia la mezza rovesciata che avrebbe potuto fissare il risultato proprio sullo stesso 1-0 d’un tempo. Così i minuti di recupero diventano un’attesa dal sapore ben diverso. Non c’è nulla da difendere e il gol sperato non arriva. Alla fine, nessun boato, solo mugugni, fischi e la sensazione che questo Catania, oggi, non basti ancora per poter eguagliare i successi del suo antenato. Altri tempi, altro Catania, altra storia. In futuro, chissà…