Autoeliminati. Niente alibi per il Catania, si prepara un’altra stagione all’inferno

Claudio Spagnolo

Adesso però non veniteci a raccontare di pressione psicologica, di gambe che tremano, e nemmeno di sfortuna. Non veniteci a raccontare di fischi dagli spalti, di cucche, di ambiente incontentabile. E non veniteci nemmeno a raccontare degli arbitri: che sicuramente non ci hanno aiutato in nessun momento della stagione, ma che sono una variabile negativa che il Catania è sempre stato abituato a mettere in conto. Non raccontateci minchiate, insomma, perché alibi non ce ne sono. Perché il Catania di domenica sera, contro il Siena, si è eliminato da solo. Quando ha regalato agli avversari, già in dieci e poi addirittura in nove, la bellezza di due tempi supplementari. Quando in oltre mezz’ora di superiorità numerica ha saputo indirizzare, su azione, un solo pallone nello specchio della porta del Siena. Quando ha dovuto affidare la sua storia futura alla lotteria balistica di una punizione di Lodi, disgraziatamente finita a sbattere sotto la traversa anziché in rete. Quando è stato incapace di fare l’unica cosa che avrebbe dovuto fare una squadra che avesse un’anima: mangiarsi il campo, surclassare gli avversari in inferiorità, aggredire ogni centimetro di spazio con la furia agonistica di chi vuole fortissimamente la vittoria. 

È questa voglia di vincere che, nella nostra squadra, non c’è stata, o almeno non c’è stata a sufficienza. È la furia agonistica, che è mancata. La furia di chi, avendo il traguardo a un passo e sapendo bene che tardare a tagliarlo avrebbe annullato il vantaggio, non ha saputo in alcun modo approfittare dell’occasione. Fortuna e sfortuna non c’entrano. La fortuna bisogna acchiapparla per i capelli, quando ci passa davanti. Una vecchia barzelletta racconta di un devoto che, ogni settimana, si rivolgeva a Sant’Agata chiedendole di fargli vincere una schedina. Prega di qua, accendi un cero di là, fai offerte per la festa. Finché la Santa, spazientita, si decide a parlare al devoto e a spiegargli: «Senti, beddu, iù a schedina ta fazzu vinciri. Tu, però, iochitìlla». Il Catania dei supplementari di domenica sera è, appunto, il devoto della barzelletta. E non ha diritto a scuse, proprio a nessuna.

Non so a cosa attribuire questa totale, recidiva, ciclica incapacità del Catania di centrare l’obiettivo nel momento in cui esso è lì, a portata di mano. Se ai limiti di Lucarelli, che ha il merito indiscutibile di avere in buona parte trasformato l’approccio rossazzurro alle trasferte, ma anche il demerito di aver lasciato da qualche parte un pezzo dell’anima di questa squadra, di aver trasformato l’un tempo inespugnabile Massimino in un campo qualunque, dove una qualunque squadretta di serie C può agevolmente venire a vincere o almeno pareggiare. Se al fallimento di alcuni giocatori, fallimento pressoché totale in alcuni casi – vedi Ripa – o, in altri casi, fallimento relativo, limitato magari ad alcune partite, però proprio quelle decisive. O se infine attribuirlo alla società. I cui problemi economici – legati a una lunghissima catena di errori e di scelte scellerate, che affondano fino ai tempi di Cosentino e sono legati a doppio filo ai guai di WindJet – si ripresentano ciclicamente, facendo sbattere i nostri sogni contro una realtà fatta di fidejussioni, bilanci da riaggiustare, iscrizioni complicate a campionati da cui non si ricava un soldo. 

È stato giusto, d’accordo, finché era in gioco il risultato del campo, mettere tra parentesi ogni discorso sull’argomento. Ma molti problemi del Catania di oggi sono figli di questo lungo declino del suo proprietario. E non sarebbe giusto che Lucarelli, con tutte le responsabilità che può avere – non dimentichiamo, ad esempio, il modulo sbagliato schierato domenica nel primo tempo – diventasse per l’ambiente rossazzurro il capro espiatorio su cui scaricare responsabilità ben più gravi. Che ci facesse dimenticare le colpe di chi ci ha trascinato fin qui, tradendo la storia, la credibilità, i valori di cui è stata sempre fatta l’anima del Catania.

Difficile trovare la forza, adesso – con le ossa ancora rotte dalla partita di domenica – per cominciare a guardare al futuro. Un futuro che sarebbe certamente necessario affrontare con un altro allenatore, che le sue ossa se le sia già fatte; uno che faccia al caso del Catania, più che avere bisogno di esso per crescere e diventare più bravo. Un futuro che richiederebbe, dal punto di vista dell’organico, non certo stravolgimenti, ma sostanziosi assestamenti che consentano al Catania di esprimere un gioco senza dipendere in tutto dall’estro di questo o quell’altro dei suoi singoli. Ma un futuro che oggi, realisticamente, sembriamo condannati a dover costruire con la stessa proprietà che ci ha trascinati fin qui. Ed è proprio qui la differenza, è qui ciò che rende le sconfitte di oggi tanto più amare di quelle di cui è stata spesso costellata la nostra storia meno recente. Nel fatto di dover provare a uscire dall’inferno restando prigionieri di chi ci ha trascinati qui dentro. Di doverci salvare l’anima camminando nel buio insieme a chi, qualche anno fa, ha scelto di venderla al diavolo.