Il Massimino, il Catania e la Leonzio: ma sul serio non ci resta che piangere?

Claudio Spagnolo

C’è tutto un genere di cinema sui viaggi nel tempo – gli americani parlano di Time Travel Movies – in cui grosso modo capita sempre la stessa cosa: il protagonista si trova a vivere, per i più svariati motivi, in un’epoca lontana, a volte molto antica. Può trattarsi di film di fantascienza, oppure di pellicole che fanno sonoramente ridere il pubblico. Come Non ci resta che piangere, in cui Troisi e Benigni si trovano all’improvviso catapultati nel 1492, alle prese con Savonarola e le caravelle di Colombo. Ma ci sono anche, accanto a questi, film meno faceti. Per esempio pellicole come Good Bye, Lenin: dove qualcuno si risveglia dal coma, in cui magari è piombato in Germania Est quando c’era ancora il muro di Berlino. E si trova ormai dall’altra parte di un cambiamento d’epoca che non sa di avere attraversato. Le bandiere rosse non ci sono più, sui muri della città si proietta, semmai, il rosso della Coca Cola. E può succedere che la protagonista del film, dopo esser scampata a un sonno da cui non era facile svegliarsi, finisca per morir d’infarto davanti a tante novità che non si aspetta e non capisce.

Non so se ci sia più da ridere o da piangere, nel film di cui nei giorni scorsi abbiamo sentito annunciare la proiezione nelle sale catanesi. Ve ne anticipiamo, in esclusiva, la trama. C’è un vecchio signore, tifoso rossazzurro, che per un problema di salute – per fortuna ormai superato – ha dormito senza sosta negli ultimi quattro-cinque mesi. Finalmente si sveglia. E la prima cosa che chiede al dottore, come è giusto, è il permesso di andare allo stadio a rivedere il suo Catania.

Il ritorno è emozionante. Sui muri del Massimino, che lui ricorda spogli e un po’ sporchi, campeggia la galleria delle vecchie glorie della sua squadra. E al centro, un po’ più grande di tutte le altre, la figura del Presidentissimo, l’uomo che ha difeso il Catania contro i potenti del calcio e ne ha reso possibile il riscatto, negli anni in cui sembrava molto più comodo dichiararsi arribattuti. L’uomo si avvicina al botteghino, dove non c’è neanche una persona in coda, e compra distrattamente il biglietto. Tutto tranquillo, fin troppo in verità. Va a sedersi in tribuna, in uno stadio inspiegabilmente deserto. Uno stadio che per un attimo, dalla poca gente che c’è, gli par quasi di vedere in bianco e nero. Prova a scrutare il campo, aguzza la vista ancora debole, riesce a riconoscere i giocatori che si scaldano. Riconosce, con un po’ di perplessità, le sagome di Parisi, De Rossi, Tavares. E l’inconfondibile eleganza di Rigoli – ma non avevamo cambiato allenatore? – ritto in piedi vicino alla panchina di casa.

Pazienza. Di fronte a una salute che rifiorisce, uno è pronto ad accettare ben altro che una squadra un po’ inferiore alla aspettative. Senonché, a un certo punto, nelle orecchie del protagonista, gli altoparlanti cominciano a soffiare i nomi dei giocatori. Trascurabili quelli della compagine ospite, solo una sfilza di cognomi sconosciuti. Ma del tutto incomprensibile, fin dall’inizio, la formazione di casa: che lo speaker, se le sue orecchie non l’ingannano, non chiama Catania. Ma battezza, contro ogni logica previsione, con il nome mai prima sentito di Sicula Leonzio.

Leonzio? La squadra di Lentini? In questo stadio? Al pover’uomo, a questo punto, comincia a girare la testa. Prova a guardarsi intorno, vuol esser certo di essere davvero a Catania. Ma non ci sono dubbi, quello stadio è il suo, lo conosce fin troppo bene. La squadra di Lentini che gioca qui in casa, però, risveglia ricordi troppo acuti. Il ricordo di anni in cui, proprio da Lentini, giunse a noi il titolo sportivo dell’Atletico per soppiantare il Catania caduto in disgrazia. Vicino al suo posto trova un giornale, prende a sfogliarlo. Cerca affannosamente la data, e respira sollevato: perché almeno ha la conferma di vivere ancora nel 2017, senza esser stato catapultato da una macchina del tempo nell’oscurità calcistica del 1993. Continua a sfogliare il quotidiano, si imbatte nella cronaca. Dove, da una foto a tutta pagina, gli sorride Enzo Bianco. Sindaco della città oggi come al tempo in cui, appunto, arrivò in questo stadio una squadra da Lentini…

Dissolvenza. Partono i titoli di coda. Dove il nome di Bianco torna ancora, tra gli sceneggiatori di questa storia. Scritta a quattro mani con Pietro Lo Monaco, suo antagonista nel poco titanico scontro tra Comune e Calcio Catania. A questo punto, immagino, gli spettatori cominceranno ad alzarsi dai loro posti e ad allontanarsi dalla sala. Riflettendo che, nella vicenda appena proiettata sullo schermo, l’inverosimile non è che uno si risvegli da un lungo oblio: la storia dei casi clinici, possiamo esserne certi, registra frequentemente eventi del genere; perché non potrebbe succedere a Catania? L’inverosimile sarebbe, piuttosto, che il Catania, oggi a un punto dal primo posto, quest’anno finalmente libero da penalizzazioni, da qualche settimana nuovamente capace di vincere in trasferta, con il conto alla rovescia in corso per la sfida casalinga con la capolista, corresse anche solo per un attimo il rischio di ritrovarsi, all’improvviso, fuori dal proprio stadio. E addirittura di lasciarne l’uso alla squadra di Lentini, la città da cui una volta, sotto il sorriso senza tempo di Bianco, venne a noi Franco Proto a miracol mostrare.

Immagino gli spettatori del film guardarsi perplessi, mentre abbandonano la sala e s’immergono nel tiepido autunno che la città ci regala. Perplessi e ignari. Ignari del fatto che non ha senso rimproverare a un film la sua inverosimiglianza. Tanto più che, come scrisse una volta Pirandello, la nostra vita è piena, beatamente piena, di tante sfacciate assurdità. È può dunque permettersi di fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l’arte crede suo dovere obbedire.