Elefanti, presidenti e motorini aribattuti: il ritorno di Franco Proto

Claudio Spagnolo

Burlone, però, questo calendario di Lega Pro. Che, dopo averci ricondotto con la nostalgia a un Catania-Taranto di altri tempi, non si accontenta di regalarci, per domenica prossima, una trasferta a Messina anch’essa densa di ricordi, alcuni dei quali peraltro molto brutti. Ma la condisce con la notizia che quest’ultima società ha da ieri un nuovo presidente, e cioè Franco Proto.

E un po’ burlone, direi, anche Franco Proto. Che, per quei pochi che non lo ricordino, cercò anni fa, con una società chiamata Atletico Catania, di prendersi il posto del Catania di Massimino. Del Catania che Antonio Matarrese, cui all’epoca faceva capo il governo del calcio, voleva cancellare da tutti i campionati per via un giorno o due di ritardo nel pagare le tasse.

Una severità senza precedenti, quella usata allora da Matarrese. E che sarebbe rimasta senza paragoni anche negli anni a venire. Tanto per dirne una: quando la Fiorentina affondò nei debiti di Cecchi Gori, se la cavò semplicemente retrocedendo in C2 e addirittura facendosi, l’anno successivo, promuovere a tavolino in serie B, con un inedito scavalcamento della purgatoriale categoria che le spettava. Mentre altre società – tipo la Lazio di Lotito – mantennero a loro tempo la serie A grazie a generose rateizzazioni delle somme dovute al fisco. A riprova che le società di calcio sono tutte uguali, ma alcune sono molto, ma molto più uguali delle altre.

Comunque, dicevo, anche Proto mi pare un po’ burlone. Perlomeno se sono vere le dichiarazioni attribuitegli dai giornali, in cui lamenta con toni elegiaci di non essere stato capito dalla sua città. Alla quale, dice, avrebbe voluto regalare il privilegio di poter scegliere tra due squadre. Come succede a Roma, a Milano, a Torino. O almeno a Genova e a Verona. Ragion per cui, mentre Massimino cadeva in disgrazia, scelse di trasferire a Catania l’Atletico Leonzio, squadra di sua proprietà da poco promossa in C1.

Peccato che, al tempo, quest’intenzione fosse così poco chiara che non sono certo che neanche Proto l’avesse capita bene. Sicché – mentre a nessun torinista sarebbe mai venuto in mente di mettere sul suo stemma una zebra, a nessun laziale di adottare come colori sociali il giallo e il rosso, e a nessun milanese di scambiare le strisce rosse con quelle azzurre – Proto scelse, tra le svariate possibilità offerte dello spettro cromatico, colori sociali singolarmente vicini al rosso e all’azzurro del Catania da poco radiato. E non trovò di meglio, nel nutrito campionario della zoologia, che adottare per stemma l’elefante. Presentandosi dunque non come un rivale, ma come una specie di pretendente all’eredità di Massimino. Che molti all’epoca, e a torto, consideravano ormai finito; e che era guardato con un certo sussiego dai non troppo numerosi followers di Proto: ai quali il presidentissimo appariva certo un po’ troppo naïf per poter rappresentare la città.

Del resto, pare che a non capire le buone intenzioni di Proto fosse stato perfino Enzo Bianco. «Chiuso il capitolo Massimino – dichiarò il sindaco di allora e di adesso, mentre l’ostinato presidente cominciava dalla giustizia sportiva una battaglia che sarebbe presto scivolata in altre aule giudiziarie – da domani lavoreremo perché con la maglia rossazzurra e con la scritta “Città di Catania” in C1 ci sia una squadra che ci riporti rapidamente alle mitiche glorie. Contatteremo i dirigenti della Leonzio per colmare il vuoto lasciato».

Mal gliene incolse, a Bianco: il quale da allora – come ben sappiamo – dovette rassegnarsi ad esser bollato, da un pezzo di elettorato in effetti più sensibile al calcio che alla politica, come una specie di agente di Matarrese. Mentre Proto ebbe il dubbio privilegio di veder nascere un fortunato neologismo semantico interamente dedicato a lui (e al suo Atletico). E cioè l’aggettivo aribattuto. Un termine derivato, a quanto ne so, dalla pratica di cancellare la matricola dal telaio di qualche ciclomotore rubato, per poi ribatterci sopra numeri fasulli: allo scopo, appunto, di farlo apparire per quello che non è. Più o meno come l’Atletico di Proto ci si propose – o forse fummo noi a capire male – come un vero e proprio Catania sostitutivo di quello con cui eravamo cresciuti. Un Catania però tutto nuovo, alquanto chic e libero dal peccato originale di zaurdaggine che faceva dell’altro una squadra così poco moderna. Un peccato che Matarrese, come s’è detto, stava incaricandosi di punire.

Poi, accadde quel che accadde. Il Catania vero si rialzò lentamente, ma inesorabilmente, scalando i campionati dilettantistici in cui era stato faticosamente riammesso. Riconquistò la dimensione modesta ma decente della serie C. E fu a quel punto che l’Atletico si rese conto che non poteva continuare a vestirsi da Catania. Ragion per cui dismise le maglie simil-rossazzurre per adottare un’inedita casacca giallo-grigia. E rinunciò far barrire l’elefante sui suoi stemmi, accontentandosi di stamparci sopra il cirneco dell’Etna.

Non durò molto, da allora, la parabola sportiva di Franco Proto. Sul quale, adesso che da pensionato ha deciso di prendersi il Messina, pioveranno i fin troppo scontati sfottò di molti suoi concittadini, che al blasone di arribattuto si divertiranno ad aggiungere il titolo nobiliare di buddace. Ma tant’è: il calcio, visto da dietro una scrivania, è un business in cui bandiere e appartenenze contano poco. Tranne che per noi: tifosi feriti di un Catania che – galleggiando oggi in serie C per le colpe del suo presidente – ci ha tolto il gusto di raccontare la sua storia come facevamo una volta: e cioè come la storia di un calcio povero e pulito, ostinatamente vivo alla faccia del calcio dei potenti. Una storia che si identifica con un numero, 11700: un semplice numero di matricola, e non certo di una matricola abrasa.