Calcio, calcare e calcinacci: quando la guerra non è soltanto una metafora

Claudio Spagnolo

Che il calcio sia una metafora della guerra non è cosa nuova. E non è nemmeno, a conti fatti, una brutta cosa. Sia perché la bellezza del calcio ha in realtà poco a che fare con l’estetica, e molto con il rude bilancio tra le battaglie vinte e quelle perdute; sia perché ai nostri giocatori, quando scendono in campo coi loro completini freschi di lavanderia, non chiediamo in fondo altro che di insozzarli del sudore e del fango della battaglia – come stanno facendo quest’anno i ragazzi di Lucarelli – e non certo di conservarli asciutti e puliti come troppo spesso è accaduto in anni recenti. E infine per una ragione che mi sembra ancor più importante delle altre: e cioè che la guerra, se proprio non si riesce a strapparla via dal cuore dell’uomo, è mille volte meglio combatterla con le cannonate di un bomber o con la lama tagliente di uno sfottò: armi di gran lunga preferibili agli aerei che sfondano i grattacieli o alle bombe sganciate sui civili. Ma qui il discorso si farebbe serio: per cui sarebbe bene che a occuparmene non fossi io, che sulle cose serie ho davvero poco da dire.

Senonché, a volte, accade che la metafora perda tutto il suo spessore figurato e che la guerra del pallone si muti, brutalmente, in conflitto armato. Un conflitto che qualcuno sabato sera ha deciso di combattere impugnando i calcinacci di una tribuna e scaricandoli sul portiere della squadra ospite; durante un derby, diciamo così, unilaterale, e cioè avvertito come tale solo dai padroni di casa, e poco o niente dagli ospiti. E può accadere, una cosa del genere, perfino nella nobilissima città di Siracusa: in un luogo che trasuda storia e cultura da ogni poro della sua stupenda pietra bianca, e in cui però il calcio è da troppo tempo ostaggio di un manipolo di deficienti, sparuto quanto si vuole, ma assolutamente incapace di capire come ci si deve comportare dentro uno stadio. La fortuna di costoro – e di quanti loro malgrado con essi convivono – è che, fino a questo momento, non ci sia mai scappato il morto. Il guaio – di tutti – è che nessuno abbia ancora trovato il modo per far sì che, quando si giocano certe partite a Siracusa, resti inteso che la parola guerra, nel calcio, è e deve rimanere una metafora e nulla più.

Lasciamo perdere il fatto che, a tenere sotto controllo la situazione, ben poco abbia potuto sabato sera fare l’arbitro, il signor D’Apice. C’è anzi da esser felici che questo brav’uomo, capace di impiegare quattro minuti per ricordarsi cosa dice il regolamento a proposito dei calci di rigore, non abbia commesso l’imprudenza di sospendere la partita quando ha visto il portiere del Catania atterrato nella sua area da un lancio di oggetti che gli arrivava dalle spalle. Cosa che avrebbe potuto, a parer mio, scatenare il peggio.

Ma chi di ordine pubblico, in grazia del proprio impiego, dovrebbe intendersi almeno un po’, poteva magari ricordarsi, nei giorni scorsi, di qualche precedente. Non solo dell’invasione di campo dell’estate 2016, con annessa sassaiola, cui si era pensato di rispondere limitandosi a vietare la trasferta ai tifosi catanesi. Ma, più ancora, dell’indisturbata passeggiata che alcuni ultrà aretusei poterono fare nel dicembre scorso in mezzo ai giocatori del Catania. Un caso che il giudice sportivo pensò di risolvere con un’ammenda un po’ ridicola. Lasciando che per il futuro ci pensassero il destino, o la provvidenza, o la fortuna, a prevenire nuovi incidenti e violenze.

Se l’orizzonte della mia vita non fosse più largo dell’anello di uno stadio, mi basterebbe adesso affidarmi a Lucarelli e ai suoi metaforici guerrieri: perché ottengano sul campo che, dall’anno prossimo, non ci tocchi più assistere al derby unilaterale di Siracusa. Siccome però provo ogni tanto a ricordarmi che c’è – al di là di quell’aiola che a volte ci fa tanto feroci – un mondo reale e fatto di cose più serie del pallone; siccome vivo in una città che la violenza, nel calcio e non solo, l’ha troppe volte attraversata e scontata; siccome ho imparato sulla mia pelle che, quando soffia quel genere di vento, è bene fermarsi a riflettere prima che sia troppo tardi; per tutti questi motivi, onestamente, non mi sento di chiuderla così.

E dunque mi permetto di dire, per poco che possa valere il mio parere, che anche a Siracusa farebbero bene a pensarci sul serio, a quel che cova dentro il loro stadio, prima che sia troppo tardi. Lasciando che di Siracusa si continui a parlare per la pietra calcarea delle sue latomie e per quella delle chiese di Ortigia; o lo si faccia anche, se un giorno questo sarà possibile, per i meriti sportivi della sua squadra di calcio. Ma non per i calcinacci di una tribuna malguardata. Né per l’idiozia infinita di chi li lancia. E neppure, infine, per l’insipienza di chi dovrebbe impedirlo, e invece se ne sta lì a guardare.