Quant’è triste l’estate se manca l’estate: nostalgie d’un pomeriggio rossAzzurro

Claudio Spagnolo

Cerco l’estate tutto l’anno, e all’improvviso eccola qua. L’estate? Il lettore, rossazzurro di cuore e scettico di mente, converrà che – a onta di quanto il meteo va imperiosamente proclamando – ciò che succede nel mondo che ci gira intorno ha poco, davvero poco, dell’estate. Se non fosse per quel senso di solitudine che può darci il restare quaggiù in città, mentre qualcosa che ci è cara – un sogno, un ricordo, una passione – è partita per un posto lontano, per spiagge irraggiungibili. Anziché gli aeroplani che se ne vanno sopra i tetti, sabato, alla prima uscita ufficiale di stagione, ci è toccato sentir fischiare petardi, esplodere bombe carta e piovere fumogeni: mentre dell’estate non c’è rimasto che il sole, uguale – ma lui soltanto – a quello di tanti anni fa.

Tanto sole, tanti anni fa: nelle mattine senza mare che ogni tanto ci capitavano, il frigorifero offriva il conforto di un bricco di latte di mandorla, fatto in casa sbrindellando un panetto ipercalorico. E in tarda mattinata arrivava in casa la copia del giornale. L’imberbe che ero io si fiondava subito sulle cronache dello sport. E prendeva familiarità con i nomi che per sempre avrebbero abitato la mitologia calcistica rossazzurra. D’estate nasceva la mia squadra, si formava la materia di cui ogni domenica sarebbero stati fatti i miei sogni. Maturava, nell’azzurro di quei giorni, il rossazzurro dei pomeriggi che avrebbero reso indimenticabile ognuno dei miei anni. E non c’erano domeniche da passare da soli, in quelle stagioni in cui la liturgia del pallone aveva per tutti un solo giorno e un’ora sola.

Si poteva gioire o soffrire, annoiarsi mai. E gli unici treni del gol di cui io abbia il ricordo erano quelli che mi capitò di prendere per le prime precoci trasferte: come quello che, una notte di novembre di troppi anni fa, mi fece attraversare mezza Italia per permettermi di sedere il pomeriggio successivo allo stadio Olimpico e di vedere il mio Catania battere la Lazio, con un gol in contropiede segnato da Aldo Cantarutti. E con i miei eroi della difesa (un nome su tutti: Roberto Sorrentino) asserragliati per novanta giri d’orologio nella propria area di rigore, a difendere la porta dagli assalti rabbiosi e impotenti della squadra di casa. Cominciavo a conoscerli d’estate, quegli eroi. Che prima erano nomi stampati sul giornale, asettiche quotazioni di mercato, complicate statistiche di una carriera che sorrideva al futuro.

E poi, quando diventavano volti e corpi vestiti della mia maglia, stringevo con loro quella silenziosa e unilaterale amicizia che mi avrebbe scaldato l’inverno. Accadeva allora: quando l’estate era estate, e i treni, che non avevano ancora cominciato ad andare all’incontrario, sapevano portarci solo verso domeniche colorate di speranza. Non come i treni di oggi, che aggiungono numeri col segno meno alle nostre classifiche già di per sé umilianti. E ci riportano in stadi più simili a oratori, dove il futuro – dopo tanto tempo – non è ancora arrivato. Dove siamo costretti a vedere, o nel peggior caso a subire, azioni di guerriglia da calcio dei tempi peggiori. Mentre gli altoparlanti del De Simone diffondono proprio quel motivetto caldo e nostalgico, cantato sin dal 1979 da Adriano Celentano, che mette voglia d’andar via da lì.

Cerco l’estate tutto l’anno. Ma non è estate quella che ci gira ora intorno. Non è estate, se già può capitare di restare sequestrati in uno stadio fino a sera, come è successo a chi sabato pomeriggio ha seguito il Catania sul campo di Siracusa. Non è estate, se non possiamo pensare col cuore lieve ai giorni in cui potremo sederci nel nostro stadio, a incitare la nostra squadra. Non è estate, se dobbiamo ancora scontare le trovate di quella certa qualrisorsa di cui pure speravamo di esserci liberati. Non sarà estate, finché il fischio di un capostazione – diverso, speriamo, da quello che ci ha condotti a questo binario morto – non tornerà a lanciare la corsa di treni su cui caricare di nuovo le valigie piene dei nostri antichi, innocenti desideri: treni che portino verso il sole, come nelle domeniche di tanti anni fa.