Noi, la Lazio, Lotito. E quando, all’Olimpico, imparammo cos’è l’ingiustizia

Claudio Spagnolo

Ottocento chilometri di lacrime

Salii sul pullman con gli occhi gonfi di lacrime, per percorrere all’indietro più di ottocento inutili chilometri di autostrada. Come era possibile? Mi era stato insegnato che si può perdere, che bisogna accettare che altri possano essere più bravi di noi.  Ma nella mia educazione non erano comprese indicazioni su come ci si debba comportare quando ad essere sconfitta non fosse stata semplicemente la mia squadra, ma l’idea stessa che lo sport sia una cosa bella e pulita, quel codice di lealtà che mi era stato sempre insegnato. Si può accettare di perderla, una partita, perfino di perderla senza merito. Ma è più difficile accettare di aver perso perché l’avversario si è vigliaccamente sottratto all’obbligo di giocare. Fu lungo quegli ottocento chilometri, percorsi tutti ripensando agli ultimi venticinque minuti di partita – venticinque minuti che avevamo il diritto di giocarci e che invece ci furono rubati –, fu allora che capii sul serio cosa sia l’ingiustizia. Da quel giorno, non l’ho più dimenticato.